Eroi del mumblecore, il filone del cinema indipendente americano fatto di chiacchiere e sentimenti minimali, i fratelli Duplass, con la loro Duplass Brothers Productions, hanno trovato in Netflix una sponda ideale per le loro produzioni a basso costo, andando a rafforzare una nicchia poco remunerativa in termini di box office ma consolidata per la percezione critica. La compagnia streaming distribuisce in tutto il mondo anche Horse Girl, il loro film più recente, diretto da Jeff Baena e presentato al Sundance Film Festival.
La protagonista del film è impiegata in un negozio di tessuti, è timida fino alla patologia e comincia a fare sogni sempre più strani e vividi. Quando comincia a vedere i personaggi dei suoi sogni nella vita reale, inizia a sospettare che ci siano degli alieni intorno a lei, controllando la sua vita e quella di sua nonna prima di lei.
Baena, assieme alla protagonista Alison Brie, piega i canoni del mumblecore e della commedia ultra-indie al dramma dal respiro soprannaturale e realizza un film che cerca di spezzare le coordinate del racconto realistico e soprattutto della percezione dello spettatore, raccontando una storia ambigua, in bilico sulla follia.
Non a caso, una delle immagini ricorrenti del film è quella di una forbice che strappa un tessuto che occupa un intero fotogramma dietro cui appare un’altra immagine: metafora chiara del meccanismo registico che Baena costruisce, giocando con le attese e il modo in cui il pubblico registra le immagini, su cosa appare vero e cosa no. Il divario tra ispirazioni lynchane e registro realistico diventa così un modo per raccontare la malattia mentale, per dare l’idea di una degenerazione mentale vissuta in prima persona, a cui però lasciare il velo dell’ambiguità rendendo impossibile un discrimine certo tra quale realtà sia in scena, anche nel finale.
Il fine del film, l’obiettivo, il nocciolo dei discorsi non sono così importanti per Horse Girl e per la strategia comunicativa dei Duplass, così il film vaga, segue senza costruzione la sua protagonista (Brie molto brava), sembra compiacersi di perdere tempo, mettendo a dura prova la pazienza dello spettatore, soprattutto perché il dispositivo su cui è costruita la tensione è presto svelato, sostituendo l’ambiguità del personaggio principale con la pena, il disagio.
Per quanto il finale vero e proprio è un bel colpo d’ala soprattutto a livello visivo, mostrando le capacità di Baena, il film sembra prendere troppo sul serio la propria natura incerta, indecisa, finendo le due sue anime – quella di riflessione metafilmica sul reale e quella di dramma psico-patologico – per annullarsi reciprocamente, rischiando di finire nel disinteresse anziché nel mistero.