Si è molto parlato nei giorni scorsi del passaporto di immunità: lo hanno citato in particolar modo i governatori di Sicilia e Sardegna – Nello Musumeci e Christian Solinas – in riferimento alla curva dei contagi in Lombardia. Una sorta di assicurazione che la persona eventualmente in viaggio per vacanza sia sana, o comunque abbia già avuto il contagio da Coronavirus avendo sviluppato gli anticorpi; un’idea che a dire il vero non ha trovato particolare riscontro nella comunità scientifica. Ora, due scienziate dell’Harvard Medical School (Natalie Kofler e Francois Baylis) hanno firmato un’analisi che è già stata pubblicata su Nature, nella quale spiegano perché il passaporto sanitario porterebbe più problemi che altro. L’inizio dello studio immagina un mondo nel quale per ottenere qualunque cosa (da una casa a un posto di lavoro) dipenda dai risultati di un esame del sangue.
Si ricorda anche che nel XIX Secolo a New Orleans si erano create due categorie di individui: quelli che erano sopravvissuti alla febbre gialla e quelli che invece non si erano ammalati. La cosa aveva portato a pesanti limitazioni della libertà personale in termini di spostamenti e dunque conseguenze politico-economiche; già alla fine di aprile l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva sottolineato come al momento non esistano prove del fatto che chi ha sviluppato la positività al Coronavirus, avendola poi superata, sia immune e protetto da una seconda infezione. Al momento, per quello che sappiamo, ammalarsi nuovamente potrebbe essere possibile e, da questo punto di vista, il passaporto di immunità servirebbe a ben poco. Ad ogni modo ci sono dieci motivi, elencati dall’analisi su Nature, per i quali questa soluzione non funzionerebbe e non risolverebbe il problema.
I DIECI MOTIVI PER SCARTARE IL PASSAPORTO DI IMMUNITA’
Il primo motivo è appunto quello del mistero sull’immunità al Coronavirus: quanto dura effettivamente? Abbiamo i precedenti di Sars e Mers a dirci che la protezione potrebbe durare uno o due anni, ma il raffreddore può ripresentarsi molto prima. Secondo tema è quello dei test sierologici, ancora poco affidabili come già detto dall’Oms che ha messo in guardia circa il loro utilizzo; poi, per un passaporto di immunità a livello nazionale servirebbero test che oggi non sono disponibili, solo destinarli agli operatori sanitari non sposterebbe il problema quantitativo tanto che negli Stati Uniti, per esempio, è stato testato solo il 3% della popolazione. Ancora: se il problema è far ripartire l’economia, il numero dei guariti dal Coronavirus secondo le stime non lo renderebbe comunque possibile. C’è poi il quinto motivo, legato alla privacy; il sesto riguarda la possibilità di controlli discriminati (come accaduto in Cina o negli stessi Stati Uniti), e il fatto che la carenza di test, come detto in precedenza, porta qualche privilegiato a poterlo eseguire a differenza di altri.
Andiamo poi a vedere gli ultimi tre motivi di questo particolare decalogo che riguarda il passaporto di immunità e il fatto che il suo utilizzo potrebbe avere più rischi che benefici. La distinzione sulla base dell’immunità da Coronavirus porterebbe a creare delle ulteriori disuguaglianze, e dunque a nuove forme di discriminazione basate sull’accessibilità delle informazioni sanitarie private, da parte di polizia, datori di lavoro o compagnie assicurative. Infine, l’ultimo motivo, curioso ma comunque plausibile: il passaporto di immunità, si legge, potrebbe portare le persone sane a cercare di infettarsi intenzionalmente, così da bypassare il problema avendo ottenuto la guarigione. Peggio ancora, la pratica potrebbe creare un mercato nero di documenti falsi; ora magari qui si sta facendo qualche passo avanti di troppo, ma il rischio è comunque concreto.