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Home » Economia e Finanza » Economia Internazionale » I DAZI DI TRUMP/ Il vero obiettivo che le tabelle sulle tariffe non riescono a spiegare

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I DAZI DI TRUMP/ Il vero obiettivo che le tabelle sulle tariffe non riescono a spiegare

Paolo Annoni
Pubblicato 4 Aprile 2025 - Aggiornato alle ore 16:59
La Casa Bianca (Ansa)

La Casa Bianca (Ansa)

Occorre comprendere bene le ragioni che hanno portato l'Amministrazione Trump alla scelta compiuta mercoledì

Mercoledì sera Trump ha esposto a favore di telecamere un grande cartello con due colonne per ogni partner commerciale. Nella prima si esibiva la tariffa che gli Stati Uniti, secondo i loro calcoli, stanno subendo e nella seconda la “risposta” sotto forma di un dazio pari alla metà del danno subito. La formula usata per calcolare il danno (surplus commerciale con gli Stati Uniti di un dato Paese diviso per le sue esportazioni totali) non è la questione vera.


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Le guerre commerciali o, semplicemente, la definizione dei rapporti commerciali, possono essere influenzate da decisioni che, senza prendere la forma di un “dazio” vero e proprio, ne replicano tutti gli effetti. La svalutazione dell’euro del 2014, quando l’Europa usciva dalla crisi dei debiti sovrani, per un importo di circa il 30% in appena due trimestri, produce gli stessi effetti di un dazio, in questo caso imposto agli Stati Uniti, di pari importo; da quel momento tutti i beni prodotti in Europa sono diventati più convenienti rispetto a quelli dei concorrenti americani del 30%, come se ogni prodotto americano fosse stato “daziato”.


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Nel memo prodotto dalla Casa Bianca mercoledì si poteva leggere che i Paesi, come la Germania o la Cina (citate testualmente insieme a Sud Corea e Giappone), “che sopprimono il potere d’acquisto dei propri cittadini per sostenere artificialmente la competitività delle proprie esportazioni” fanno politiche assimilabili ai dazi. Queste politiche includono “sistemi fiscali regressivi” e “la soppressione dei salari rispetto alla produttività”.

È la storia dell’euro a trazione tedesca e dell’austerity di Bruxelles imposta, per esempio, in Italia. Senza l’austerity deliberatamente imposta in Europa i salari sarebbero saliti e con esso l’euro, favorendo le importazioni americane e sfavorendo le esportazioni europee. Non è un’analisi molto diversa da quella recentemente presentata da Mario Draghi, quando ha biasimato la scelta di puntare sulle esportazioni sacrificando la domanda interna. Questa scelta ha avuto delle gambe e delle braccia con cui ha camminato e agito che si chiamano “austerity” o, per dirla con le parole della Casa Bianca, “soppressione del potere d’acquisto” per “supportare artificialmente le esportazioni”.


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Passiamo alla Cina. Il cambio di Pechino, non è l’unico, è artificialmente soppresso da tre decenni, dal 1994 per essere precisi, al punto che si è persa qualsiasi correlazione tra il surplus commerciale cinese e l’andamento della sua valuta. La soppressione del tasso di cambio è del tutto assimilabile, nei suoi effetti, a un dazio; questo è tanto vero che la diatriba economica tra Cina e Stati Uniti si potrebbe chiudere domani con una rivalutazione della valuta cinese, che però, avvisiamo subito, probabilmente non avverrà mai. La lista è lunga e abbiamo solo citato alcuni degli esempi più macroscopici che hanno portato all’annuncio di mercoledì.

Si dirà: ma allora come mai, dopo decenni in cui tutto ha funzionato benissimo, gli americani hanno deciso di cambiare? Siamo arrivati al punto di mercoledì perché quel sistema non è più in grado di perpetuarsi. Il motivo è che gli Stati Uniti hanno accumulato troppo deficit, troppi debiti e perso troppe fabbriche e non si può aprire un confronto con la Cina senza acciaio, senza navi, senza controllo delle proprie catene di fornitura perché insistono tutte sulle fabbriche del “nemico”.

E bisogna fare almeno un’altra precisazione. La questione della insostenibilità della condizione americana non è un feticismo, passateci il termine, di Trump e degli ignoranti impresentabili che l’hanno votato o dei pazzi che hanno deciso di entrare nella sua Amministrazione. Tutt’altro. Si può discutere della soluzione, ma l’analisi è assolutamente bipartisan e del tema si è discuso amabilmente per anni nei simposi economici di ogni ordine e grado tra investitori, economisti e manager delle principali istituzioni finanziarie a stelle e strisce.

Biden, si può infine dire, non l’avrebbe fatto. È possibile. Nessuno lo può dire. Biden però non c’è più. Non perché l’America è razzista, ma perché l’inflazione è uscita dal grafico, l’America, anche per il suo debito (accumulato sotto amministrazioni repubblicane e democratiche), non ha potuto controllarla, ed è saltata “l’American way of life”, lo stile di vita americano e il relativo benessere minacciate nella loro essenza.

Oggi, mentre la Cina circonda Taiwan, si scopre che il Paese asiatico produce più navi commerciali in un singolo cantiere di quanto non facciano tutti i cantieri americani messi assieme. A ulteriore riprova che quel sistema non poteva più perpetuarsi.

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Tags: Donald TrumpMario DraghiJoe Biden

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