La guerra commerciale degli Stati Uniti con Messico e Canada è durata meno di un giorno e si è chiusa lunedì sera con l’annuncio di un rinvio dei dazi di un mese. Le tre economie sono profondamente interconnesse da decenni e gli impatti sarebbero stati distruttivi per tutti gli attori coinvolti. Gli Stati Uniti non avrebbero compromesso la propria economia, come nel caso canadese e messicano, ma avrebbero dovuto incassare incrementi dei prezzi diffusi.
Non è un caso che i dazi sul petrolio canadese siano stati immediatamente limitati al 10%: gli Stati Uniti importano dal Canada 4,5 milioni di barili di petrolio al giorno e altri 900 mila arrivano dal Messico. Le esportazioni dal Messico agli Stati Uniti, includono, oltre alle automobili, anche prodotti di largo consumo come frutta e verdura.
La guerra commerciale con i vicini è durata un giorno, ma è comunque servita a segnare alcuni punti. Il primo è stato quello di costringere gli osservatori a fare i conti sui costi di una guerra. Per gli Usa si sarebbero misurati in un incremento dell’inflazione, mentre per Canada e Messico si sarebbe trattato di entrare in una grave recessione. Il secondo punto è che il rischio rimane latente e questo potrebbe comunque spostare le decisioni delle imprese e costringerle a valutare la costruzione di nuovi impianti negli Stati Uniti.
Continua invece la guerra commerciale con la Cina, vittima di un dazio universale del 10%. La risposta di Pechino, arrivata ieri, include dazi del 15% sul gas e sul carbone americano e del 10% sul petrolio. Per i piani di espansione della produzione di idrocarburi di Trump è importante che ci siano mercati di sbocco e la Cina è potenzialmente uno dei più interessanti.
Se la Cina è una “minaccia esistenziale”, secondo le parole del rappresentante per il commercio della prima Amministrazione Trump, Robert Lighthizer, allora non si può escludere una prosecuzione della guerra. Il modello economico cinese, basato sulle esportazioni, è messo in crisi dalla fine della globalizzazione e dalle tensioni geopolitiche che impattano le rotte di navigazione. Trasformare il modello economico spingendo i consumi richiede anni e questo implica una fase di fragilità per la Cina non solo economica ma anche sociale.
Sappiamo, secondo le parole di Trump, che arriveranno anche i dazi contro l’Europa. Anche in questo caso i dazi arriverebbero in una situazione di fragilità economica e politica. L’Europa è alle prese con una crisi energetica proprio in una fase in cui la domanda di elettricità cresce a ritmi che non si vedevano da decenni; le crisi geopolitiche in Medio Oriente, con la “chiusura” del Mar Rosso, minacciano le sue catene di fornitura. L’Europa oggi dipende dalle esportazioni molto più che nel 2008. La crisi economica dell’Europa si traduce in “crisi” politiche sia in Francia che in Germania.
Cina e America hanno un approccio alla transizione energetica completamente diverso da quello europeo. Anche la Cina, spesso additata ingiustamente come “modello green”, aumenta a tassi record le centrali a carbone. Il cuore industriale europeo, e anche italiano, oggi è alle prese con un enorme problema di competitività che è innanzitutto energetico e poi fiscale e regolamentare. Il risultato è che la posizione negoziale europea è molto debole.
Tutto il “Green New Deal” dell’Ue affonda nelle catene di fornitura cinesi, per le batterie, per le terre rare, per i pannelli solari e per la componentistica elettrica. È inevitabile chiedersi se l’Europa potrà continuare a commerciare “liberamente” sia con gli Usa che con la Cina e, in secondo luogo, quali saranno le contropartite politiche con cui si potranno eventualmente ammorbidire le richieste americane.
La Cina è una “minaccia esistenziale” per gli Stati Uniti, ma anche per il modello europeo questa guerra commerciale è una minaccia esistenziale e non c’è tempo per programmi quinquennali o decennali. Il minimo che si dovrebbe fare è lavorare sulle forniture energetiche “di prossimità” senza preclusioni. Bisognerebbe anche ribaltare l’approccio centralistico dell’Unione e deregolamentare per creare un ambiente pro impresa.
Questo però non è quello che si osserva e l’impressione è che l’Europa si sia convinta che finisca tutto in niente come nel caso canadese e messicano. Invece, le richieste di Trump, anche quelle più apparentemente “incredibili” sulla Groenlandia, sono serissime.
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