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Home » Lavoro » I NUMERI DEL LAVORO/ Come stanno cambiando contratti e retribuzioni in Italia

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I NUMERI DEL LAVORO/ Come stanno cambiando contratti e retribuzioni in Italia

Il Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva presentato dal Cnel nei giorni scorsi contiene dati molto interessanti

Giuliano Cazzola
Pubblicato 29 Aprile 2025
Pixabay

Pixabay

Nei giorni sorsi il Cnel ha pubblicato il XXVI Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva. I dati complessivi, riferiti al 2024, confermano quelli già resi noti, ma vi sono particolari aspetti che meritano una particolare sottolineatura perché servono a chiarire criticità vere o presunte del dibattito corrente.


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Un’occupazione senza crescita

Anche nel corso del 2024, come per il 2023, non si è verificata in Italia una crescita del Pil pari a quella dell’occupazione. In un contesto di modesta crescita economica, il numero degli occupati (dipendenti e indipendenti) è aumentato dell’1,5%, fino a raggiungere alla fine dell’anno il livello dei 24 milioni, con un incremento anche della componente femminile che non può ancora ritenersi soddisfacente e che, tuttavia, conferma il superamento della quota di 10 milioni.


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Quali sono le possibili spiegazioni del fenomeno? Per Banca d’Italia l’incremento dell’occupazione può trovare una motivazione in ragione del minor costo del lavoro rispetto agli altri fattori produttivi (innovazione e beni energetici) e alla fragilità delle catene di approvvigionamento nella fase post-Covid.

Questa considerazione troverebbe conferma nell’incremento dell’occupazione nei servizi (+6,8%) e giustificherebbe, da un lato l’arretratezza negli investimenti nella digitalizzazione, dall’altro il basso livello delle retribuzioni: in sostanza, le imprese avrebbero preferito assumere di più (con una spesa minore per via del contenimento delle retribuzioni) anziché innovare.


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Inoltre, anche il fattore demografico ha giocato un ruolo di primo piano: è infatti cresciuta la popolazione occupata nella fascia di età over 50 per il generale invecchiamento della popolazione, ma anche per effetto delle riforme del sistema pensionistico degli ultimi anni che hanno ridotto in modo significativo le uscite per anzianità e ritardato quelle per vecchiaia.

Se messo a confronto con quello dei principali Paesi europei, il mercato del lavoro italiano – secondo il Rapporto – presenta ancora rilevanti criticità soprattutto con riferimento all’occupazione femminile e giovanile (le più basse in Europa con un divario nel 2024, nella classe età 15/29, rispettivamente di 12,9 e 15 punti percentuali rispetto alla media europea), ai tassi di lavoro sommerso (tra i più alti in Europa), all’occupazione della componente vulnerabile del mercato del lavoro e delle persone con disabilità in particolare.

Nonostante sia salito al 62,2%, il tasso di occupazione italiano (15-64 anni) rimane il più basso d’Europa risultando inferiore di 15,2 punti percentuali rispetto alla Germania, di 6,8 punti percentuali rispetto alla Francia, di 3,9 punti percentuali rispetto alla Spagna.

Per quanto riguarda la qualità dell’occupazione nel 2024, è aumentata l’occupazione di 352mila unità (dato Istat annuo), trainata dagli over 50 e dalla crescita dei dipendenti a tempo indeterminato (+508mila e in aumento, cioè, del 3,3% rispetto al 2023). Sono aumentati leggermente (+47mila su 585mila) anche i lavoratori indipendenti. Si contrae invece quasi del 7% l’occupazione temporanea che, comunque, interessa ancora una platea superiore a 2,75 milioni di dipendenti.

Si tratta di una tendenza positiva, che va avanti da tre anni, anche se non si possono tralasciare talune valutazioni critiche dipendenti da molteplici fattori, tra cui le tipologie contrattuali utilizzate, le ore lavorate nell’arco dell’anno, la diffusione del part-time involontario, il trattamento retributivo e normativo complessivo.

È doveroso tuttavia distinguere tra i dati relativi alla struttura del mercato del lavoro e quelli di flusso. Nel primo aspetto si riscontra un quadro generale di crescita dell’occupazione a tempo indeterminato e di una quota decrescente dello stock di occupati temporanei (l’incidenza sul totale dell’occupazione complessiva 15-64 dipendente è stata del 12,6% nel 2023 e dell’11,6% nel 2024, l’incidenza sull’occupazione dipendente è stata del 16,1% nel 2023 e del 14,8% nel 2024);

per quanto riguarda, invece, i dati di flusso riferiti al periodo gennaio-settembre 2024 (gli unici finora disponibili) risulta che le attivazioni di rapporti di lavoro sono state 10 milioni e 142mila, in lieve crescita del 0,5% rispetto al 2023, ma di queste solo il 16% (nel 2023 l’incidenza era del 17,2%) sono state a tempo indeterminato (compreso l’apprendistato) mentre l’84% sono contratti temporanei (tempo determinato, collaborazioni, lavoro a chiamata, stagionale, somministrazione).

È questo il principale argomento di cui si avvale la propaganda sindacale quando denuncia il “dilagare della precarietà”, nel senso che un fenomeno in larga parte provvisorio come l’assunzione a termine viene considerato strutturale. Invece, a prova della diffusa temporaneità del lavoro a termine, il Rapporto osserva che il complessivo flusso in ingresso verso il tempo indeterminato, pari a 654 mila, risulta composto da 420 mila attivazioni e 234 mila trasformazioni (35,8% del totale).

I contratti temporanei – rileva il Rapporto – sono oramai consolidati come il principale canale di accesso al lavoro, ma il loro utilizzo mostra una significativa correlazione con il ciclo economico: così come nelle crisi degli anni scorsi, da ultimo nella crisi dovuta al Covid, i contratti a termine sono stati i primi a ridursi, in maniera speculare nel 2021, in un contesto di ripresa caratterizzato da elevata incertezza, la crescita occupazionale avviene soprattutto con contratti a tempo.

Nel gennaio 2025 si contano 24,222 milioni di occupati, in crescita rispetto al mese precedente e affiancati dalla contestuale contrazione dei disoccupati e degli inattivi. La disaggregazione per tipologia di contratto mostra come l’incremento mensile sia dovuto all’aumento dei dipendenti permanenti (che si attestano a 16,48 milioni), i dipendenti a termine (2,66 milioni, anche se tale dato risulta in forte calo rispetto al tendenziale) e gli autonomi (5,11 milioni); tale dinamica positiva è comune a entrambi i generi, seppure più intensa tra le donne.

L’occupazione aumenta anche rispetto a gennaio 2024 (+513mila occupati), in conseguenza della crescita dei dipendenti permanenti (+702mila) e degli autonomi (+41mila) e del calo contestuale dei dipendenti a termine (-230mila).

L’impatto delle dinamiche demografiche sul mercato del lavoro in Italia

L’Italia attraversa una trasformazione demografica profonda, unica nella sua storia recente, che modifica in modo significativo la composizione della forza lavoro perché al progressivo invecchiamento della popolazione si aggiunge il consistente e persistente calo della natalità. Si tratta di fattori che comprimono progressivamente la popolazione in età lavorativa, con effetti rilevanti sulle dinamiche del mercato del lavoro e sulla sostenibilità del sistema economico e previdenziale.

Secondo le proiezioni demografiche, il numero di persone tra i 15 e i 64 anni scenderà dagli attuali 44,4 milioni a circa 37 milioni entro il 2050, con una contrazione particolarmente marcata nella fascia 35-54 anni, nucleo centrale della forza lavoro.

Avviandoci a concludere queste riflessioni dichiaratamente limitate a parti del ricco Rapporto del Cnel, ci sembra utile richiamare alcuni aspetti significativi del dibattito in corso. Emerge una evidenza: i c.d. contratti pirata hanno un rilievo praticamente insignificante.

Alla data del 31 dicembre 2024, risultano depositati presso il Cnel 1.017 Contratti collettivi nazionali di lavoro, di cui 388 vigenti e 629 scaduti (la maggior parte dei quali non sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil di cui più di 100 da oltre 10 anni). Nel settore pubblico sono stati censiti 23 contratti collettivi, mentre 46 sono gli accordi economici collettivi relativi ad autonomi e parasubordinati.

Un elemento cruciale che emerge dall’analisi è la forte concentrazione della copertura contrattuale, che contrasta con la frammentazione numerica dei Contratti collettivi nazionali di lavoro.

Il Rapporto evidenzia, infatti, che, esclusi i settori contrattuali “agricoltura” e “lavoro domestico”: i 29 contratti più grandi (oltre 100.000 lavoratori ciascuno) coprono la maggior parte dei lavoratori del settore privato: 11.655.658 (il 79,7%); i 70 contratti medio-grandi (tra 10.000 e 100.000 lavoratori) estendono ulteriormente questa copertura ad altri 2.527.957 (il 17,3%); complessivamente, i 99 contratti con applicazione superiore ai 10.000 dipendenti coprono la quasi totalità della forza lavoro privata 14.183.615 (97%);

i 663 contratti tra i 10.000 e i 500 dipendenti coprono 383.200 lavoratori il 2,6%; all’estremo opposto, un numero molto elevato di contratti (164) si applica a meno di 500 dipendenti ciascuno, (61.452) coprendo complessivamente solo lo 0,4% dei lavoratori.

Dall’analisi emerge che i Contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative sono applicati a oltre il 96% dei dipendenti del settore privato (esclusi “agricoltura” e “lavoro domestico e di cura”) censiti dall’Inps e al 100% dei dipendenti del settore pubblico contrattualizzati censiti dalla Ragioneria Generale dello Stato per mezzo del Conto annuale delle amministrazioni pubbliche.

Ci troviamo, quindi, di fronte al dato che la proliferazione e la parcellizzazione della contrattazione trovano complessivamente applicazione per un numero di aziende e di lavoratori statisticamente poco incidenti nel settore o sottosettore di riferimento (con esclusione di alcuni settori, come per esempio il terziario privato), rendendo quindi evidenti motivazioni estranee alla tutela dei lavoratori che sollevano interrogativi sulla loro effettiva autenticità anche a seguito delle analisi qualitative svolte sia sulla parte retributiva sia su quella normativa che evidenziano diffusi fenomeni di dumping contrattuale,

con un’evoluzione stessa di diversi di questi cosiddetti contratti “pirata” – dopo una prima fase di concorrenza sleale sugli elementi base della retribuzione – volti ad alimentare concorrenza sleale attraverso minori tutele (in materia di orario di lavoro, sotto inquadramento, periodi di comporto e copertura malattia e infortuni, sanità integrativa, cassa edile, ecc.).

Nello specifico relativamente ai soggetti firmatari, lato sindacato, va segnalato che degli 1.017 contratti del settore privato depositati al 31 dicembre 2024 (esclusi i settori agricoltura e lavoro domestico e di cura,), 214, che rappresentano 14.055.104 lavoratori, sono sottoscritti da federazioni di categoria comparativamente più rappresentative aderenti a Cgil, Cisl e Uil; 803, che rappresentano 573.254 lavoratori, risultano sottoscritti da organizzazioni sindacali non rappresentate al Cnel.

Il 96,1% dei lavoratori del settore privato con Ccnl noto (sempre con esclusione del settore agricolo e del settore domestico) è coperto da un Ccnl sottoscritto da federazioni di categoria aderenti a Cgil, Cisl e Uil.

È evidente che in un siffatto contesto non avrebbe alcun senso cimentarsi con una legge sulla rappresentanza quando il problema è risolto in via di fatto, a meno che qualche confederazione – che come la Cgil insiste particolarmente su questa richiesta – non intenda avvalersi di questa legge per fare i conti in casa ovvero pesare l’effettiva rappresentanza delle confederazioni storiche, in vista di una competizione tra di loro all’insegna di accordi separati, come sta già avvenendo nel pubblici impiego dove una legge sulla rappresentanza è vigente e operativa.

Le retribuzioni

Anche per questo argomento i dati sono noti. E non sono positivi. Tra gennaio 2021 e dicembre 2023 i prezzi al consumo sono saliti complessivamente del 17,3%, mentre le retribuzioni contrattuali sono cresciute solo del 4,7%.

Nel 2024, tuttavia, si registra un recupero, seppur ancora parziale, del potere d’acquisto, determinato dalla crescita delle retribuzioni contrattuali nel comparto industriale (+4,6%) e in quello dei servizi di mercato (+3,4%), a fronte di una crescita dei prezzi al consumo che ha rallentato (+1,1%). D’altro canto, su questa tendenza incide negativamente la fiscalizzazione del cuneo che determina – secondo il Cnel – perdite per quasi tutti i redditi lordi medio-bassi.

L’analisi delle retribuzioni in termini reali mostra, nella media nazionale, un divario, ancora marcato, rispetto alle economie europee, scontando la bassa produttività totale dei fattori, la mancata copertura della maggioranza dei lavoratori da contratti collettivi di secondo livello e anche per via dei significativi ritardi nei rinnovi di molti Ccnl rispetto alle scadenze ordinarie, in assenza di istituti o strumenti volti a coprire eventuali periodi di vacanza contrattuale.

In confronto con le altre economie europee, nel 2022 la crescita delle retribuzioni nelle quattro grandi economie europee era risultata abbastanza omogenea (compresa tra il 4,1% della Germania e il 5,6% della Francia), mentre nel 2023 in Italia è stata nettamente inferiore (2,5%) rispetto a Francia (4,4%), Spagna (5,3%) e Germania (6,1%). In generale tra il 2013 e il 2023 le retribuzioni lorde annue per dipendente in Italia sono aumentate complessivamente di circa il 16%.

Tale aumento ha rappresentato poco più della metà di quello registrato nella media Ue-27 (+30,8%); in particolare, Spagna e Francia hanno mostrato una dinamica migliore rispetto all’Italia (entrambe +22,7%), mentre in Germania l’aumento osservato è stato ancora più rilevante (+35%).

L’analisi delle retribuzioni in termini reali mostra poi un divario ancora più marcato rispetto alle altre economie europee: nel 2023 l’Italia era l’unico Paese con un livello medio delle retribuzioni reali inferiore rispetto a dieci anni prima.

Retribuzioni lorde annue per dipendenti nominali (sinistra) e reali (destra) nelle maggiori economie dell’Ue27. Anni 2013-2023

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