Ci sono dei dati molto interessanti sul mercato del lavoro all'interno del Rapporto annuale dell'Istat presentato ieri
Il mercato del lavoro funziona e genera occupazione, ma i problemi strutturali sono ancora tutti da risolvere.
In estrema sintesi questa è la prima impressione che proviene dalla lettura dei dati sul mercato del lavoro contenuti in più parti del rapporto Istat 2025 sulla condizione del Paese, presentato al pubblico ieri.
I dati occupazionali sono noti: nel 2024 aumentano gli occupati dell’1,5% rispetto all’anno precedente, sebbene a un ritmo inferiore rispetto al 2023 (+2,1%).
La crescita è dovuta al tempo indeterminato; a fine 2024 gli occupati hanno raggiunto i 23,9 milioni (+3,6% rispetto al 2019). Il tasso di occupazione per la popolazione 15–64 anni è salito al 62,2% (+3,2 punti percentuali rispetto al 2019).
L’Italia resta comunque il Paese con il tasso di occupazione più basso d’Europa (15 punti inferiore alla Germania, 7 rispetto alla Francia, 4 in meno della Spagna).
Anche se l’occupazione cresce nel 2024 si osserva una diminuzione della produttività del lavoro per occupato dello 0,9% e di quella per ora lavorata dell’1,4%. Anche i salari reali sono in calo: dal 2019 al 2024 la perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni lorde per dipendente è stata del 4,4%.
Nel 2023, il 21,0% dei lavoratori risulta a basso reddito, condizione più frequente tra donne (26,6%), giovani sotto i 35 anni (29,5%), stranieri (35,2%) e dipendenti con contratto a termine (46,6%).
Il rapporto fra andamento dei salari e costo della produzione è uno degli aspetti che questo rapporto tocca, e vale la pena di spenderci su due parole.
Il Costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) è aumentato del 5,4% nel 2024, principalmente a causa della combinazione tra incremento delle retribuzioni e diminuzione della produttività (-2,0% la produttività del lavoro). Questo incremento non è stato interamente trasferito sui prezzi di vendita delle imprese, che sono cresciuti solo dello 0,5%, comportando una riduzione dei margini di profitto (markup) dello 0,8%.
Viene spontaneo considerare che l’aumento del costo del lavoro non si è trasformato in nuova inflazione grazie al comportamento delle imprese che non hanno alzato i prezzi. Probabilmente le imprese sanno che alzando i prezzi non avrebbero ottenuto maggiori fatturati, con una domanda interna tenuta bassa da salari reali in calo.
Se guardiamo i dati degli ultimi cinque anni, ci rendiamo conto che, rispetto al 2019, nel 2024 il markup è risultato in media più elevato dello 0,9%, ma con grandi differenze per settore: un forte aumento in agricoltura (+8,5%) e incrementi più contenuti nelle costruzioni e nei servizi (2,7% e 1,6% rispettivamente), mentre per la manifattura si rileva, dopo una crescita limitata nel biennio 2022-2023, un ritorno nel 2024 allo stesso livello del 2019.
Insomma, siamo in una spirale difficile: se non si alzano i salari, nessuno compra; se si alzano i salari le imprese non fanno più profitto. Esportare di più? Si, va bene, ma fra guerre sul campo, guerre dei dazi e crisi in Europa non si riesce proprio.
Ci sarebbe un modo per crescere, spingere giù i costi e far crescere utili e salari: investire di più in innovazione e in educazione (e formazione). Sono due voci di spesa su cui lo Stato e la società hanno un ruolo da giocare assieme, in una logica sussidiaria. Ma non se ne sente parlare molto.
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