I dati Istat di maggio 2025 presentano un mercato del lavoro italiano in trasformazione. Il numero di occupati sale di 80mila unità rispetto ad aprile, attestandosi a 24 milioni 301mila. Calano gli inattivi, con molti lavoratori tornati a cercare un salario.
Dietro questi dati positivi si muove una dinamica strutturale degna di attenzione: crescono i dipendenti permanenti (+388mila in un anno) e gli autonomi (+175mila), mentre calano i dipendenti a termine (-155mila).
Il paradosso della stabilizzazione
A prima vista, il fenomeno sembra solo positivo. Dopo anni di precarizzazione del mercato del lavoro, assistiamo a un processo di stabilizzazione che porta i dipendenti permanenti a rappresentare l’85% dell’occupazione dipendente. Un dato che si avvicina ai livelli pre-crisi del 2016, quando oscillavano tra l’86 e l’88%. La quota di dipendenti a tempo indeterminato sul totale degli occupati raggiunge il 67,2%, un segnale che le imprese stanno investendo in capitale umano con prospettive di lungo periodo.
Tuttavia, questa lettura va valutata con attenzione. Il calo dei contratti a termine (-5,5% su base annua) non rappresenta solo una conversione verso forme più stabili di impiego. In molti casi, soprattutto nei settori del terziario e del turismo, segnala una riduzione della flessibilità organizzativa che potrebbe compromettere la capacità delle imprese di adattarsi ai cicli economici. Non tutti i lavori a termine sono precariato mascherato: alcuni rappresentano risposte a picchi di domanda stagionale o a progetti temporanei.
L’enigma del lavoro autonomo
Più complessa è l’interpretazione della crescita del lavoro autonomo (+3,5% annuo), che porta gli indipendenti a 5 milioni 223mila unità. Dopo anni di declino costante – la quota di autonomi è scesa dal 28% del 2004 all’attuale 21,5% – assistiamo a un’inversione di tendenza. Ma di quale autonomia parliamo?
I dati aggregati nascondono realtà eterogenee. Da un lato, professionisti qualificati scelgono l’indipendenza per valorizzare competenze specialistiche in mercati sempre più frammentati. Dall’altro, forme di lavoro autonomo mascherano rapporti di dipendenza economica, dove l’autonomia è più formale che sostanziale. Il fenomeno delle “false partite Iva” resta un nodo irrisolto del mercato del lavoro italiano.
Le facilitazioni fiscali introdotte negli ultimi anni hanno incentivato questa crescita, ma resta da capire se si tratti di un’evoluzione strutturale o di un adattamento a regimi fiscali più favorevoli. La vera autonomia richiede capacità imprenditoriali, accesso al credito, reti professionali: elementi che non sempre accompagnano la scelta del lavoro indipendente.
I giovani nella transizione
I dati per classi di età sono preoccupanti. I 35-49enni, tradizionalmente il cuore produttivo del sistema, mostrano segnali di sofferenza: calano gli occupati (-120mila in un anno) e aumentano i disoccupati. Questa generazione, stretta tra competenze che invecchiano rapidamente e carichi familiari crescenti, rischia di pagare il prezzo più alto della transizione digitale e organizzativa in corso.
Particolarmente allarmante è il dato sui giovani 15-24enni, con un tasso di disoccupazione che balza al 21,6% (+1,7 punti su aprile). In un mercato che premia esperienza e competenze consolidate, l’ingresso dei giovani diventa sempre più difficile. Il calo dei contratti a termine, tradizionale porta d’accesso al mondo del lavoro, potrebbe ulteriormente complicare il loro percorso.
Reti, non gabbie
La fotografia di maggio 2025 ci consegna un mercato del lavoro in transizione verso un modello ancora indefinito. La stabilizzazione occupazionale è un bene, ma non può avvenire a scapito della flessibilità necessaria all’innovazione. La crescita del lavoro autonomo va monitorata per distinguere vera imprenditorialità da precarietà mascherata.
Le politiche attive servono ad accompagnare questa transizione. Non bastano incentivi fiscali o norme sulla stabilizzazione: occorre investire in formazione continua, facilitare i passaggi tra diverse forme di lavoro, costruire reti di protezione che non siano gabbie. Il rischio è di mantenere un mercato duale dove stabilità e precarietà, autonomia vera e falsa, convivono senza comunicare, aumentando le disuguaglianze invece di ridurle.
I prossimi mesi ci diranno se questa è l’alba di un nuovo equilibrio o solo l’ennesima oscillazione di un mercato che fatica a trovare la sua strada. Nel frattempo, dietro i numeri, milioni di lavoratori navigano l’incertezza con la speranza che stabilità non significhi immobilismo e che autonomia non sia sinonimo di solitudine.
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