Nel Rapporto sulla politica di bilancio 2025 dell'Upb ci sono dati interessanti sul mercato del lavoro italiano
Nel Rapporto sulla politica di bilancio 2025, l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) dedica un approfondimento alle questioni cruciali del mercato del lavoro individuando le relazioni non sempre virtuose che intercorrono tra occupazione, produttività e retribuzioni. In sintesi e in generale, secondo l’Upb il mercato del lavoro nel periodo post-pandemia ha mostrato una sorprendente capacità di generare occupazione, recuperando velocemente e poi superando i livelli pre-crisi.
Questo risultato è stato favorito dalla consistente riattivazione delle persone inattive, che hanno trovato occupazione in misura maggiore rispetto a chi già cercava lavoro; tale processo ha inciso sulle caratteristiche degli occupati, in quanto chi già apparteneva alle forze di lavoro ha in media maggiori esperienze professionali rispetto agli inattivi. Tuttavia – il dato merita attenzione – l’attivazione di persone che in precedenza non partecipavano al mercato del lavoro è stata intensa soprattutto per le donne, i giovani e gli individui con istruzione elevata; in termini geografici e settoriali, ha prevalso l’attivazione nel Mezzogiorno e nei servizi legati al turismo (alloggio, ristorazione e trasporti).
L’impennata dell’occupazione è stata determinata anche dalle politiche di sostegno attuate durante la crisi (come l’erogazione praticamente illimitata degli ammortizzatori sociali), mentre la forte flessione dei salari reali negli anni successivi hanno reso il fattore lavoro relativamente più conveniente rispetto al capitale.
Ciò perché nella fase post-pandemia i salari reali in Italia sono nettamente diminuiti, a differenza dei prezzi degli altri input; in particolare, i prezzi dei beni energetici e strumentali sono stati spinti al rialzo, dopo la pandemia, dalle interruzioni lungo le catene di approvvigionamento e, in seguito alla guerra in Ucraina, dalla crisi energetica. Tra il 2019 e il 2024 l’incremento delle retribuzioni nominali orarie è stato circa la metà di quello dei prezzi al consumo ed è stato inferiore a quello del deflatore degli investimenti fissi lordi.
L’espansione occupazionale si è accompagnata a una persistente stagnazione della produttività del lavoro, riconducibile a più fattori. All’interno dei singoli settori la produttività è aumentata, ma l’analisi delle ricomposizioni settoriali suggerisce che l’incremento occupazionale si sia concentrato in comparti o tipologie di impiego a minore produttività. In sostanza, la produttività del lavoro è stata frenata anche dal contributo negativo dell’intensità del capitale; il capitale disponibile per ogni lavoratore si è ridotto poiché i prezzi relativi tra i fattori produttivi hanno reso più conveniente l’impiego di lavoratori con basso salario piuttosto che l’acquisizione di capitale fisico o l’investimento in innovazione e ricerca.
In conclusione – scrive l’Upb – il mercato del lavoro italiano nel post-pandemia ha segnato importanti progressi sul fronte dell’occupazione e della partecipazione, ma contestualmente ha accresciuto le sfide strutturali sul fronte della produttività. Una crescita più duratura e sostenibile richiede un approccio integrato che, accanto al sostegno dell’occupazione, promuova attivamente l’efficienza dei processi riallocativi e l’investimento in capitale umano, fisico e tecnologico, colmando il divario tra dinamica della produttività e andamento delle retribuzioni.
Negli anni successivi alla crisi pandemica le transizioni verso la nuova occupazione hanno interessato in maggior misura il lavoro dipendente (oltre l’8 per cento dell’occupazione in media nel 2021-22 e 2022-23), risultando più elevate rispetto a quelle del lavoro autonomo (6,5 per cento nell’analogo periodo). Anche in questo caso hanno contribuito maggiormente i flussi in uscita dall’inattività rispetto a quelli dalla disoccupazione.
Hanno inoltre nettamente prevalso le transizioni verso impieghi a tempo determinato (oltre il 30 per cento dell’occupazione dipendente nel periodo finale), in particolare tra le donne inattive nel periodo iniziale.
Con riferimento al regime orario, la nuova occupazione si è complessivamente caratterizzata per le transizioni verso gli impieghi a tempo parziale (circa il 17 per cento in media), soprattutto dall’inattività. Gli ingressi in lavori a tempo pieno sono stati più elevati per le donne (6,5 per cento), a differenza dei flussi nel tempo parziale, in cui ha prevalso la componente maschile (22,4 per cento). La permanenza delle donne negli impieghi part-time si è ridotta al di sotto della media pre-Covid, sebbene resti ben più alta di quella degli uomini.
Quanto alle caratteristiche socio-demografiche della nuova occupazione, le transizioni da inattività a occupazione hanno rappresentato la principale causa dell’aumento dell’occupazione complessiva (dipendente e autonoma) tra il 2021 e il 2024. Il numero complessivo dei nuovi assunti, soprattutto in precedenza inattivi, ha costituito una quota rilevante dell’occupazione nel periodo post-pandemico; i flussi di nuovi assunti hanno rappresentato oltre l’8,5 per cento degli occupati totali nel 2021-22, oltre il sette per cento nel 2022-23 e il sei per cento nel primo semestre 2023-24.
Queste evidenze confermano le indicazioni a livello aggregato di una considerevole espansione del mercato del lavoro italiano nel triennio 2021-23, sospinto dall’ingresso nell’occupazione di persone non incluse in precedenza nelle forze di lavoro (che hanno costituito circa i due terzi della nuova occupazione nel periodo considerato), oltre che dall’elevata permanenza nell’occupazione della frazione maschile dei lavoratori.
Invece, il basso contributo dei flussi in uscita dalla disoccupazione ha rappresentato un elemento peculiare di questa fase ciclica; la maggiore vicinanza al mercato del lavoro delle persone in cerca di un impiego, rispetto agli individui inattivi, non si è quindi tramutata in maggiori accessi nel mercato del lavoro, a differenza di quanto avveniva normalmente in passato.
I nuovi occupati che in precedenza erano inattivi sono entrati nel mercato del lavoro con minori esperienze lavorative rispetto ai nuovi occupati in uscita dalla disoccupazione. L’esperienza lavorativa pregressa ha aumentato la probabilità di trovare un impiego per gli individui già in cerca di lavoro. I nuovi occupati che provenivano da un precedente stato di disoccupazione sono infatti costituiti in larga parte da individui con una precedente storia lavorativa (circa l’81 per cento in media nel 2021-22).
L’incidenza dei lavoratori con precedenti attività lavorative è più bassa, ma comunque non trascurabile, anche per le persone che sono transitate dallo stato di inattività a quello di occupazione (poco meno di due terzi dei nuovi assunti). Nel complesso è possibile che l’ingresso nell’occupazione da parte di individui precedentemente inattivi e con bassi livelli di istruzione abbia interessato ambiti di attività economica contrassegnati da minore efficienza.
Gli ingressi nell’occupazione dall’iniziale condizione di inattività hanno riguardato in prevalenza le donne, che hanno rappresentato quasi il 7 per cento degli occupati in media nel 2021-22 e 2022-23, due punti percentuali in più dei valori pre-pandemia. Per la componente maschile gli ingressi complessivi nella nuova occupazione sono invece avvenuti gradualmente e si sono discostati solo marginalmente dai valori medi pre-crisi (per circa un punto percentuale in media tra il 2021 e il 2023).
Per entrambe le componenti di genere, infine, non si sono registrati scostamenti rilevanti dai valori pre-Covid (media dei periodi 2018-19 e 2019-20) per le transizioni verso l’occupazione da una precedente condizione di ricerca di lavoro.
I flussi verso l’occupazione sono risultati composti in massima parte da lavoratori di nazionalità italiana, soprattutto per quanti sono entrati dall’inattività. Le transizioni dei lavoratori stranieri sono comunque risultate maggiori rispetto alla media pre-crisi; quelle dalla disoccupazione sono apparse più elevate degli analoghi passaggi osservati per le persone di nazionalità italiana. Ciò si è riflesso in un contributo crescente dei lavoratori stranieri alla nuova occupazione, la cui quota è salita fino a quasi il 18 per cento per gli ingressi dalla disoccupazione, a fronte di una incidenza media di circa il 9 per cento tra i lavoratori già occupati.
Le transizioni verso l’occupazione da una condizione di non lavoro consentono di analizzare anche le principali tipologie dei nuovi impieghi.
La produttività del lavoro è peggiorata negli ultimi anni, ma già da diversi decenni era debole. Nel periodo successivo alla pandemia il forte aumento dell’input di lavoro, superiore a quello del Pil, si è riflesso in un deterioramento della produttività oraria. Il tema dell’efficienza delle condizioni di produzione caratterizza però l’economia italiana da molto tempo.
Tra il 1995 e il 2024 il valore aggiunto reale (VA) e l’occupazione di contabilità nazionale sono aumentati per l’economia italiana in maniera simile, del 24 e 22 per cento rispettivamente nello stesso periodo le ore lavorate sono cresciute in misura inferiore (13,7 per cento) e tuttavia anche il VA per ora lavorata ha registrato una crescita modesta in media annua. Evidenze simili sono emerse sulla produttività totale dei fattori (TFP), ovvero quella parte residuale di crescita del VA che non è spiegata dai fattori produttivi, quindi imputabile al progresso tecnologico o più in generale all’organizzazione dei fattori nel processo produttivo e a variabili di contesto.
Considerando dati per l’intera economia italiana, tra il 1995 e il 2024 la TFP avrebbe realizzato un incremento di soli 3,5 punti percentuali, quindi marginale in media annua; nelle stime sulla produttività dell’Istat, che escludono le attività non direttamente legate alla produzione privata, la produttività ha una dinamica più favorevole, per cui a livello settoriale emerge un ritardo nella componente pubblica.
Recentemente – avverte l’Upb – la relazione tra input di lavoro e attività produttiva si è rafforzata in Italia, più che nel confronto europeo. La relazione tra input di lavoro e attività economica ha mostrato, nel caso italiano, un’evoluzione difforme rispetto a quella di altri Paesi dell’area dell’euro. L’elasticità dell’occupazione al Pil ha evidenziato un incremento nel periodo più recente, con un disallineamento tra la dinamica del numero di occupati e quella del monte ore lavorate.
Una divergenza nella risposta delle diverse misure di input di lavoro al prodotto era emersa con maggiore evidenza nelle fasi recessive, quali la crisi finanziaria globale, la successiva crisi dei debiti sovrani e la recessione indotta dalla pandemia. Concentrandosi sull’ultimo triennio, dalla crisi sanitaria alla fine dello scorso anno, l’occupazione ha registrato una bassa variabilità rispetto al Pil, mentre le ore lavorate si sono mosse in modo più coerente con l’andamento del ciclo economico. La bassa correlazione tra le dinamiche del Pil e degli occupati non si è osservata nell’area dell’euro, rafforzando l’ipotesi di una specificità del caso italiano nei meccanismi di risposta del mercato del lavoro agli shock macroeconomici.
La tenuta occupazionale nel periodo post-pandemia si spiega in parte con il labour hoarding, soprattutto nella manifattura per la necessità di preservare competenze specialistiche. L’aumento degli occupati oltre le contingenti esigenze produttive indica il labour hoarding, ovvero la tendenza delle imprese a mantenere livelli occupazionali superiori a quelli giustificati dal volume corrente di attività.
Tale comportamento, già osservato in altre fasi recessive o di forte incertezza, appare particolarmente rilevante nel contesto recente, riflettendo aspettative favorevoli sulla domanda futura, oppure, l’esigenza di trattenere competenze difficilmente sostituibili. Il fenomeno risulta particolarmente accentuato in alcuni comparti, come quello manifatturiero, dove il capitale umano incorpora spesso conoscenze tecniche e operative altamente specifiche, difficilmente rimpiazzabili nel breve termine.
In questi settori, la conservazione della forza lavoro rappresenta una scelta strategica per preservare la continuità produttiva in vista della ripresa, ma può comportare un calo della produttività del lavoro difficilmente sostenibile nel lungo periodo.
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