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Home » Lavoro » Giovani, Famiglia e Lavoro » I NUMERI DEL LAVORO/ Se la laurea non basta a trovare un’occupazione o a restare in Italia

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I NUMERI DEL LAVORO/ Se la laurea non basta a trovare un’occupazione o a restare in Italia

I dati del Rapporto AlmaLaurea 2025 sono interessanti da analizzare per capire come cercare di contrastare alcuni mismatch

Franco Ferrazza
Pubblicato 18 Giugno 2025
Image by SnapwireSnaps from Pixabay

Image by SnapwireSnaps from Pixabay

Il Rapporto AlmaLaurea 2025 restituisce un quadro incoraggiante: i tassi di occupazione dei laureati sono in crescita, i contratti diventano più stabili e le retribuzioni iniziano a registrare piccoli ma concreti miglioramenti. È una fotografia importante, da leggere senza superficialità, che mostra come la laurea continui a rappresentare un investimento efficace per chi si affaccia al mercato del lavoro.


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Ma come spesso accade, i numeri non raccontano tutto. C’è un tema che percorre trasversalmente l’intero rapporto – e molte delle esperienze quotidiane che incontro come orientatore – ed è quello del mismatch: il disallineamento tra ciò che si è studiato e ciò che si fa, tra le aspettative e la realtà, tra il potenziale di una generazione e le condizioni per valorizzarlo.


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Laureati e lavoro: i dati positivi non mancano

A un anno dal titolo, lavora il 78,6% dei laureati triennali e magistrali: si tratta del dato più alto dell’ultimo decennio. Tra chi ha conseguito una laurea magistrale, quasi il 40% ha già ottenuto un contratto a tempo indeterminato. Le retribuzioni nette mensili sono in crescita: 1.490 euro per i triennali (+6,9% rispetto all’anno scorso), 1.488 euro per i magistrali (+3,1%).

Anche la qualità dei percorsi formativi ha un peso: chi ha svolto tirocini o esperienze all’estero mostra tassi di occupazione superiori alla media. In particolare, chi ha partecipato a programmi Erasmus o simili ha un +7,9% di occupazione a un anno dalla laurea. Si conferma, ancora una volta, che esperienze “vive” durante l’università – non solo esami – fanno la differenza.


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STEM: un passaporto ancora forte, ma…

I corsi STEM (scienze, tecnologia, ingegneria, matematica) restano tra i più premiati. Maggiore coerenza tra studi e lavoro, stipendi più alti, tempi di ingresso nel mercato più brevi. Tuttavia, proprio in questi ambiti si evidenzia una criticità: molti dei migliori profili scelgono di lavorare all’estero, attratti da condizioni professionali ed economiche migliori. I dati mostrano che, in media, un laureato che lavora fuori dall’Italia guadagna tra il 50% e il 60% in più rispetto a chi rimane.

Questo non è solo un tema di “fuga dei cervelli”, ma di assenza di attrattività: se un giovane formato qui, pronto, preparato, motivato, decide di spendersi altrove, la questione non è solo culturale. È strutturale.

Mismatch: non solo nei percorsi umanistici

Il 39,3% dei laureati triennali e il 31,9% dei magistrali dichiara di svolgere un lavoro non coerente con il proprio titolo di studio. Una percentuale che riguarda non solo le discipline umanistiche, ma anche molte tecniche e scientifiche. Laurearsi in ingegneria o informatica non garantisce automaticamente un’occupazione qualificata. Lo scollamento può dipendere dalla zona geografica, dalla rigidità delle imprese, dall’assenza di strumenti di accompagnamento reali.

Questo mismatch pesa soprattutto sulla generazione Z, che entra nel mondo del lavoro con competenze ibride, molta reattività, ma spesso senza qualcuno che aiuti a leggere la realtà. Non basta più “avere una laurea”, serve saperla usare, raccontare, adattare. Ma serve anche che dall’altra parte ci sia un contesto disposto a fare spazio.

Studenti stranieri: chi resta (e chi no)

Un altro fronte poco discusso è quello degli studenti stranieri che si laureano in Italia. Secondo AlmaLaurea, nel 2022 erano 12.214, pari al 4,3% del totale. Di questi, una parte ha svolto tutto il percorso formativo nel nostro Paese (quasi il 40% ha ottenuto il diploma in Italia). Sono giovani spesso molto motivati, multilingue, già inseriti nella cultura italiana.

Eppure, meno del 40% di loro rimane in Italia dopo la laurea. Gli altri scelgono di lavorare all’estero. Anche in questo caso: non è una fuga. È una mancata accoglienza. Tra barriere burocratiche, difficoltà di riconoscimento delle competenze e scarsa disponibilità di contratti regolari, perdiamo una risorsa già pronta. In un Paese con tassi di natalità in caduta e forte necessità di competenze, questa è una contraddizione che merita attenzione.

Costruire continuità: come trasformare segnali positivi in percorsi stabili

Tassi di occupazione in crescita, retribuzioni più alte, maggiore stabilità contrattuale: sono segnali reali. Ma perché diventino tendenze durature e non episodi occasionali, serve una direzione chiara.

Serve anzitutto ascoltare i giovani, non per confermare ogni aspettativa, ma per riconoscere il bisogno di senso che esprimono – anche quando si traduce in incertezza o fatica. Serve poi valorizzare le esperienze concrete durante il percorso formativo: tirocini, progetti sul campo, contatto reale con le imprese e i contesti produttivi.

Occorre anche accompagnare meglio chi sceglie l’Italia per formarsi, studenti stranieri spesso motivati ma troppo spesso lasciati soli al termine degli studi. Manca ancora una politica organica per integrarli nel mercato del lavoro, anche laddove avrebbero molto da offrire.

Al tempo stesso, è necessario che università, imprese e Terzo settore facciano sistema, non solo per accogliere i laureati, ma per generare nuove occasioni di impiego che siano sostenibili e stabili. E in tutto questo, la formazione deve diventare un diritto permanente, non un passaggio giovanile: chi lavora, chi si è fermato, chi vuole cambiare deve trovare un sistema pronto a sostenerlo.

Forse non serve molto. Basta che una prima occasione venga colta, che una sinergia tra scuola e lavoro si realizzi, che un giovane sia accompagnato bene. Da lì può nascere tutto il resto.

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