Quando lunedì 17 luglio l’Ufficio nazionale di statistica cinese (Nbs) ha reso noti i risultati sul Pil, il mondo ha finalmente realizzato che l’economia cinese ha rallentato. La crescita del 6,3%, inferiore a quella del 6,9% prevista, ha avviato il dibattito circa i limiti strutturali dello sviluppo cinese. Da parte nostra li avevamo già individuati ai tempi in cui il varo della Belt and Road initiative aveva persuaso un gran numero di analisti dell’ineluttabilità di un nuovo secolo cinese. Il modello “export lead” ha cessato di trainare l’economia e la contrazione delle esportazioni del 5,2% e delle importazioni del 6,9% da Stati Uniti e Unione europea testimonia la trasformazione che sta patendo il sistema Cina.
La ripresa dalla pandemia da Covid-19 è andata decisamente peggio di quanto sperato e addirittura c’è chi ha paventato il rischio di una fase deflattiva a fronte dei dati registrati nel mese di giugno circa l’indice dei prezzi alla produzione, che è calato per il nono mese di seguito, e dell’indice dei prezzi al consumo vicino allo zero. Un altro dato molto indicativo è quello relativo alla produzione industriale, aumentata solo del 3,8% registrando, così, un’anemica crescita dello 0,4% rispetto all’anno precedente.
Il mercato immobiliare si conferma una nota dolente per Pechino, la crescita del settore si è attestata sul 3,8% rispetto al 6,1% del 2022. Inoltre, la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 5,3%, con un picco del 21,3% fra i 16 e i 24 anni. Cifre record inimmaginabili qualche anno fa e che testimoniano il cambiamento di rotta dell’economia cinese.
Se pensiamo che quel poco che rimane della ripresa è trainata sostanzialmente dalla vendita al dettaglio e dalla ristorazione capiamo perché nel sondaggio China Business Outlook dell’agenzia di rating S&P la fiducia dei consumatori è scesa al 23% dal 34% di febbraio. Dal punto di vista congiunturale, l’economia cinese risente a livello globale della fase incerta e a livello domestico della moderazione della domanda interna, ma a livello strutturale deve fare i conti con una riduzione notevole degli investimenti e con le difficoltà nel riorientare il proprio sistema economico a favore dei consumi interni.
Questo cambiamento è il frutto del crollo considerevole delle importazioni di capitali e di quello che è il vero decoupling con cui deve fare i conti questa fase della globalizzazione, ovvero quello tecnologico e finanziario. In definitiva, la Cina non è riuscita a sfuggire dalla trappola del reddito medio di cui abbiamo più volte parlato. Ridurre le criticità dell’economia cinese al fatto che non è più competitiva per quanto riguarda il costo della manodopera è alquanto banale, poiché il Governo cinese si trova di fronte a una sfida storica ed è costretto a ripensare del tutto il proprio modello di sviluppo, ristrutturandolo in senso domestico e rinunciando, al contempo, a indirizzare le proprie risorse verso infrastrutture e finanziamenti esteri, ovvero a rimodulare e ripensare la propria proiezione geopolitica. Un cambiamento di paradigma produttivo e finanziario che la leadership di Xi Jinping declinerà nelle forme di una rigida autarchia.
Questo vuol dire che la supply chain e gli investimenti a essa indirizzati subiranno un cambio di rotta, diventando le basi di una “catena industriale” autonoma e indipendente che garantisca la sicurezza nazionale cinese. Un colossale cambiamento del paradigma produttivo che verte sulle tecnologie green che devono assicurare la completa autosufficienza energetica.
Tenere assieme il sostegno alla domanda cambiando, al contempo, la struttura della propria economia è un’impresa che fa impallidire quelle dell’epopea maoista, ma che sarà possibile mobilitando tutte le energie del Paese. Purtroppo la Storia ci insegna che la mobilitazione di una nazione molto spesso coincide con la sua militarizzazione, una lezione che, come testimonia la retorica nazionalista, il Governo cinese ha imparato molto bene.
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