L’Istat ha diffuso i dati del mercato del lavoro relativi al mese di maggio. È ancora un mese con un andamento a freno tirato. L’occupazione scende (49mila occupati in meno) e anche la disoccupazione scende con un numero assoluto simile. Il saldo contabile ce lo offre la crescita degli inattivi (48mila in più rispetto ad aprile). Le percentuali associate a questi numeri sono molto piccole, diciamo che vale la lettura di un mercato che si è fermato e ci porta a un tasso di occupazione complessivo che scende sotto il 60% (si ferma al 59,8%).
Il confronto con i dodici mesi precedenti conferma i dati confortanti di una crescita dell’occupazione che è in ripresa dalla seconda metà dell’anno passato. Sono oltre 400mila gli occupati in più rispetto al maggio 2021. La frenata di aprile e maggio 2022 indica però che il nostro mercato mantiene una scarsa capacità di creare una crescita occupazionale stabile e con la continuità richiesta dagli obiettivi economici di sistema che ci siamo dati con il Pnrr.
Anche se i dati mensili sono da vedersi come tendenza più che come numeri effettivi si nota un ritorno del lavoro autonomo. Il calo occupazionale di maggio vede penalizzati soprattutto i lavoratori dipendenti permanenti, sia maschi che femmine. Oltre due terzi compaiono però nella crescita dei lavoratori autonomi. Crescono ancora anche i lavoratori a termine che superano il valore massimo del 2017.
Sono segnali che si possono cercare di comprendere di fronte alla situazione di difficoltà di molti mercati a fare previsioni di lungo periodo, da un lato; dall’altro, maggio segna l’avvio di molte attività stagionali estive e trascina verso l’alto i contratti a termine.
Il passaggio da lavoro permanente a lavoro autonomo assorbe buona parte delle dimissioni volontarie che sono divenute oggetto di dibattito in questi ultimi mesi. Il lavoro autonomo ha pagato un prezzo molto alto nel corso del periodo pandemico. Sia gli autonomi a partita Iva che molte piccole attività del commercio e dei servizi hanno dovuto rinunciare alla loro attività tradizionale. Oggi alcuni di loro tornano ad attività indipendenti e sono affiancati da alcuni lavoratori dipendenti che, avendo sperimentato lavori diversi e un’organizzazione diversa del lavoro con lo smart working, tentano oggi di avviare attività autonome. La spinta è alla ricerca di un miglioramento lavorativo sia economico che negli aspetti organizzativi. I numeri di dimissioni che si registrano in questo periodo, almeno per quanto riguarda il mercato del lavoro italiano, parlano di una ricerca di nuovi assetti lavorativi e non certo un ritirarsi nell’inattività.
Infatti, a fronte di un numero di dimissioni volontarie apparentemente anomalo, abbiamo ricollocazioni che avvengono entro le due settimane e appunto anche una sensibile crescita di lavori autonomi.
La struttura del nostro mercato del lavoro mantiene tutte le iniquità che lo caratterizzano da molto tempo. I due anni di pandemia hanno accentuato alcune disfunzioni. Il mismatching fra formazione ed esigenze delle imprese era già rilevabile prima dei prolungati lockdown. La ripresa della domanda di lavoro sommata al permanere di situazioni salariali e contrattuali inadeguate ha messo in mostra con maggiore evidenza una situazione che in molti settori produttivi era già nota.
Possiamo dire che le stesse dimissioni volontarie in crescita sono l’effetto dell’imbuto da mismatching che premia chi ha competenze specialistiche. L’effetto esercito industriale di riserva, ossia l’esistenza di un eccesso di offerta di lavoro che permette alle imprese di decidere unilateralmente le condizioni di lavoro, non funziona per una larga parte di professioni. Tutte quelle che l’indagine Excelsior individua come di difficile reperimento, laureati in materie scientifiche, statistiche e matematiche, così come operai specializzati di diversi settori manifatturieri hanno un potere contrattuale che possono oggi sfruttare maggiormente vista la forte ripresa produttiva della fase post-pandemica.
La trappola dei lavori poveri rimane per tutte quelle professioni con basse competenze richieste e che vedono una concorrenza accesa fra chi ha bisogno di avere almeno un reddito, anche basso, da sommare agli aiuti pubblici.
Un’ultima annotazione si può estrarre dai dati relativi alla prima fase dell’anno in corso. L’Italia ha forti squilibri territoriali che caratterizzano il mercato del lavoro. La questione meridionale è da sempre anche un problema di lavoro e sviluppo. La fase pandemica ha colpito in modo asimmetrico i settori economici ed ha accelerato fenomeni in corso. Già da questi primi mesi emerge come anche a livelli di mercati più piccoli, diciamo per basi provinciali o di distretti economici, si assiste a un’accelerazione di ritiri dal mercato del lavoro con un aumento del tasso di inattività, anche aree dove la crescita occupazionale ha superato i massimi storici.
Crescono i Neet, c’è una crescita di povertà educativa e formativa e servirà una decisa politica di intervento per favorire percorsi formativi e occupazionali per i giovani. In alcuni distretti l’occupazione di giovani e donne ha avuto però una crescita molto accentuata grazie alla rete di formazione professionale più efficiente, ma anche per un mix di settori economici e produttivi che hanno favorito una crescita del tasso di occupazione in modo deciso. Nasce da qui il superamento del 60% di tasso d’occupazione femminile dell’area metropolitana di Milano che ci auguriamo sia solo il primo bel risultato di una ripresa del lavoro migliore per tutti.
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