I NUMERI/ Perché anche i giovani laureati non “sfondano” subito nel lavoro?

- Giampaolo Montaletti

I dati relativi ai ritorni occupazionali dell'istruzione offrono utili spunti di riflessione, soprattutto sul necessario sostegno ai giovani

Lavoro Ufficio Piabay1280 640x300 (Pixabay)

Istat ha pubblicato il 25 ottobre 2022 il report sui ritorni occupazionali dell’istruzione. Il report, che utilizza i dati delle indagini sulle forze di lavoro, consente di valutare la posizione in Europa del nostro Paese in termini di istruzione e relativa occupazione, tenendo conto del genere e dell’età della popolazione.

Cominciamo col dire che l’indicatore più utilizzato per valutare il grado di istruzione è la percentuale dei diplomati. La scuola secondaria superiore è considerata il livello minimo di istruzione che consente un potenziale sviluppo di carriera sul mercato del lavoro (esistono sicuramente storie individuali diverse, anche edificanti, ma che restano eccezioni).

Nel 2021, il 62,7% dei 25-64enni ha almeno un titolo di studio secondario superiore in Italia, contro il 79,3% della media Ue-27, l’84,8% della Germania e l’82,2% della Francia. Si tratta quindi di un divario ampio, che va di pari passo con quello esistente fra i tassi di occupazione medi europei. La bassa istruzione va di pari passo con la scarsa partecipazione al mercato del lavoro.

La presenza di un grande numero di persone con titoli di studio bassi potrebbe sembrare un vantaggio per chi cerca lavoratori nelle mansioni elementari, soprattutto nel settore dei servizi, ma non è così: anche al netto della retorica sul Reddito di cittadinanza, chiunque faccia una passeggiata in una zona commerciale vedrà le vetrine piene di cartelli “cercasi personale”.

Guardiamo gli indicatori relativi al numero dei laureati e dell’educazione terziaria: anche la percentuale di chi ha un titolo di studio terziario (20,0%) è più bassa della media europea (33,4%) ed è circa la metà di quella registrata in Francia e Spagna (40,7% in entrambi i Paesi). Quello che preoccupa di più è il lento ingresso dei laureati nel mercato del lavoro italiano. Il tasso di occupazione dei laureati 25-64enni è all’82,1%, 4,3 punti più basso di quello medio europeo; il gap sale al 6,8% tra i 30-34enni (81,1%) mentre è di 17,4 punti tra gli under 35 che hanno conseguito la laurea da uno a tre anni prima (67,5%).

Questo significa che anche il laureato giovane ha, come tutti i giovani, un lungo periodo di ingresso nel mercato, una lunga rampa di lavoretti e tirocini che lo lasciano al palo per un tempo inutilmente lungo. Certo si può invocare la presenza di lauree incoerenti con la domanda, ma non basta a giustificare un gap di 17,4 punti percentuali con la media europea: è chiaro che i datori di lavoro hanno delle difficoltà nel comprendere l’evoluzione delle competenze che sono avvenute negli ultimi anni in tutti i sistemi di educazione terziaria.

Può darsi che sia colpa di università e istituzioni formative, ma un’azione di orientamento continuo è necessaria anche verso i datori di lavoro. D’altra parte l’evoluzione delle tecnologie e dei processi educativi fa sì che dopo pochi anni i contenuti formativi si siano evoluti anche molto, mentre i titoli delle discipline e dei corsi di studio lasciano intendere una formazione di un passato che probabilmente non esiste più.

Il report sottolinea che il 50% dei Neet che cerca lavoro lo è da più di un anno. Cresce la quota di Neet inattivi, ma si tratta spesso di donne con carichi di cura familiare. Insomma, di fannulloni ce ne sono pochi, i problemi che le persone di questo gruppo affrontano sono problemi veri.

Tutti i dati del report convergono su un punto: il modo con cui vengono trattati i giovani all’ingresso del mercato del lavoro è una vergogna nazionale e un freno masochista allo sviluppo. Dobbiamo ricordare due fatti che riguardano l’agenda politica a tutti i livelli:

1) i giovani sono pochi, non possiamo sprecare i pochi che abbiamo in mansioni di basso livello e non possiamo permetterci un’educazione che produca scarti;

2) sostenere i giovani non è un atto di generosità verso una classe generazionale debole, ma una scelta di sostenibilità dei sistemi economici e di welfare.

L’istruzione in media paga ancora, ma, sottolineiamolo, paga in ritardo. Non tutti i laureati hanno un futuro garantito, alcuni non guadagnano di più di un diplomato o non trovano un lavoro, dobbiamo essere chiari nel ricordarlo a tutti. Ma dobbiamo anche ricordare a tutti che un Paese con bassi livelli di istruzione ha un futuro di sottosviluppo garantito.

Per usare una definizione passata di moda, l’innalzamento dei livelli di istruzione è un bene comune, e come tale va perseguito e merita libertà e risorse.

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