Pietro Ichino – giuslavorista di lungo corso ed ex senatore del Partito Democratico – non ha usato mezzi termini nel giudicare l’iniziativa referendaria dell’8 e 9 giugno definendo i quesiti sul lavoro un boomerang che – a suo avviso – prometterebbero diritti senza offrirli davvero, finendo anzi per svuotarli, smontando punto per punto i quattro referendum promossi da Cgil e sindacati di base giudicandoli – con nettezza – sia tecnicamente errati che socialmente rischiosi.
Partendo dal primo quesito, incentrato sull’abrogazione del decreto del 2015 sui licenziamenti, ha osservato che un eventuale esito positivo riporterebbe il sistema alla legge Fornero, un ritorno indietro che – secondo lui – non cambierebbe nulla per i licenziamenti illegittimi mentre ridurrebbe da 36 a 24 le mensilità d’indennizzo nei casi “insufficienti” e se i promotori parlano di un ritorno dell’articolo 18 – ha detto – che in realtà si tratterebbe solo di un’illusione, in quanto la reintegrazione riguarderebbe una casistica ristretta – appena il 2% dei casi totali – ovvero i licenziamenti collettivi.
Secondo Ichino, il paradosso verrebbe aggravato dal secondo quesito che propone di eliminare il tetto dimensionale per l’applicazione dell’articolo 18 nelle piccole imprese ribadendo che mentre il primo quesito punta a ridurre il limite per le grandi aziende, il secondo lo cancella del tutto per le piccole creando così un sistema incoerente in cui i dipendenti delle PMI godrebbero, paradossalmente, di tutele più forti ma senza una base logica unitaria.
Quanto al terzo quesito che intende reintrodurre l’obbligo della “causale” per i contratti a termine inferiori ai 12 mesi, ha parlato di una trappola potenzialmente fatale: a suo dire, il controllo giudiziario della causale non farebbe altro che moltiplicare i contenziosi con il risultato di arricchire solo gli studi legali e inoltre, ha fatto notare come – grazie a limiti quantitativi chiari – i contratti precari siano diminuiti del 40% nell’ultimo decennio e – dunque – si è chiesto perché tornare a un sistema caotico.
Critiche severe anche per il quarto quesito che vuole riformare le responsabilità sulla sicurezza negli appalti con il giuslavorista che rimarca come la proposta voglia eliminare l’eccezione che oggi esonera il committente dai rischi specifici dell’appaltatore, un’idea – secondo lui – assurda: perché mai un’azienda che affida un incarico a una ditta specializzata dovrebbe rispondere di eventuali errori tecnici che non rientrano nelle sue competenze? L’unico quesito che ha sostenuto è stato il quinto, quello sulla cittadinanza: in questo caso ha parlato di una questione etica affermando che i bambini nati in Italia devono avere diritti uguali agli altri, senza essere intrappolati in trafile burocratiche irragionevoli.
Pietro Ichino su referendum e lavoro: “Ripristino articolo 18 promessa vuota”
Referendum – ha osservato Ichino – è una parola che oggi più che mai viene usata in modo ideologico in quanto – a suo giudizio – il vero punto della questione sta in un approccio intriso di retorica antagonista tra impresa e lavoro, una visione che finisce per danneggiare i lavoratori insieme agli imprenditori e se l’articolo 18 – ha precisato – rappresentava una conquista in un’epoca in cui il posto fisso era la regola (non l’eccezione) oggi il mercato è mutato e richiede tutele nuove, flessibili, capaci di adattarsi a una realtà che non è più quella degli anni Settanta.
Per il giuslavorista, il Jobs Act ha offerto una direzione concreta ovvero ridurre la precarietà con norme semplici e comprensibili, senza appesantire il sistema con meccanismi giudiziari che creano solo incertezza e – a suo avviso – occorre garantire indennizzi adeguati ma trasparenti mentre i referendum – ha detto – finiscono per aumentare la frammentazione con le piccole imprese strozzate dai costi legali e le grandi aziende indotte a restare sotto la soglia dei 15 dipendenti per non incorrere in tutele troppo onerose.
Ichino ha ampliato la sua analisi affrontando anche la questione produttività ricordando che in Germania le tutele forti non hanno mai soffocato l’industria perché lì si investe nella formazione e nel dialogo tra le parti sociali, in Italia – invece – si preferisce lo scontro legale con il risultato che le aziende evitano nuove assunzioni per paura di cause lunghe e costose, mentre molti giovani vedono nell’emigrazione l’unica via possibile.
In chiusura, Ichino ha rivolto un appello alla sinistra: secondo lui, è tempo di superare la logica degli slogan in quanto la partecipazione dei lavoratori – ha sostenuto – non può nascere da leggi punitive ma solo dal coinvolgimento reale dei sindacati nella governance delle imprese e la nuova normativa sulla rappresentanza è un primo passo positivo ma ha aggiunto che occorre più coraggio nell’abbandonare il populismo referendario e puntare su riforme vere come la revisione del welfare e la riduzione del cuneo fiscale, solo così – ha concluso – si potrà davvero tutelare il lavoro in Italia.