Israeliani: sondaggio choc rivela l'82% favorevole all’espulsione forzata da Gaza e il 47% sostiene metodi di guerra estremi, giustificando lo sterminio
Un’indagine effettuata dalla Pennsylvania State University per il Geocartography Knowledge Group – riportata da Haaretz – mostra che più dell’80% degli ebrei israeliani si dice favorevole all’espulsione dei palestinesi dalla Striscia di Gaza, una percentuale che rappresenta un salto rispetto al già ampio 45% registrato nel 2003, e che fornisce uno spaccato sociale difficile da ignorare, ma non solo Gaza perché, secondo lo stesso studio, il 56% degli intervistati approverebbe la rimozione forzata anche dei cittadini palestinesi residenti in Israele, descrivendo un contesto cui soprattutto le misure drastiche sembrano ottenere consenso sempre più ampio.
Ancora più controverso è il fatto che quasi la metà del campione – il 47% – approvi esplicitamente l’uso di metodi di guerra estremi, facendo riferimento al racconto biblico della distruzione di Gerico, in cui si giustificava “l’uccisione di tutti gli abitanti” delle città conquistate, con una narrazione che sembra aver trovato nuova vita nel contesto attuale e questa tendenza trova inoltre risonanza nelle politiche promosse dal governo: all’inizio del mese è stata avviata l’operazione militare “Gideon”, il cui scopo dichiarato è quello di spingere i palestinesi verso Rafah, incoraggiandone l’“emigrazione volontaria”.
Il piano è stato apertamente sostenuto dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha anche elogiato la proposta di Donald Trump di “ripulire” Gaza, definendola giusta e rivoluzionaria, ribadendo poi che il cessate il fuoco è possibile solo a patto della liberazione di tutti gli ostaggi, del disarmo totale di Hamas e dell’esilio dei suoi vertici al comando.
Israeliani sull’espulsione palesinese: un consenso che taglia trasversalmente la società
Il sondaggio sulla percezione degli israeliani ci racconta come queste posizioni non siano affatto marginali, né circoscritte alle frange più estremiste, semmai, sembrano attraversare l’intera società israeliana, con livelli di approvazione altissimi anche tra i gruppi solitamente ritenuti più moderati: tra i laici, ad esempio, il 70% sostiene l’espulsione da Gaza, mentre tra gli altri religiosi e ultra-ortodossi si supera il 90%, a dimostrazione di un cambiamento totale all’interno del tessuto sociale.
Gli accademici Shay Hazkani e Tamir Sorek leggono questi dati non solo come l’effetto del trauma sociale e comunitario causato dagli attacchi del 7 ottobre, ma ache come risultato di una radicalizzazione di lungo periodo, rafforzata da media, scuola e addirittura da una giurisprudenza che, spesso, ha fatto spazio a retoriche disumanizzanti.
Emblematico, in questo senso, l’uso del concetto biblico di “Amalek” – il nemico da annientare – citato dallo stesso Netanyahu in messaggi rivolti ai soldati, e interiorizzato, secondo il sondaggio, dal 65% della popolazione; un dato ancor chiaro più se si considera che il 93% di chi condivide questa narrazione ritiene oggi valido il comandamento di “cancellarne la memoria” e secondo gli studiosi, questa visione, combinata con la matrice tradizionalmente colonialista del sionismo, è un terreno fertile per le derive più estreme, fino a ipotizzare un vero e proprio rischio di pulizia etnica o peggio, spinto dal desiderio di una sicurezza assoluta, interpretata come l’eliminazione totale della minaccia.
Ma il dato più preoccupante riguarda i più giovani – in particolare gli under 40 – che rappresentano, tra l’altro, l’ossatura dell’esercito, in quanto solo il 9% di loro si oppone alle espulsioni, mentre il blocco totale di Gaza riceve l’approvazione del 53% degli israeliani, nonostante la gravissima crisi umanitaria in corso: uno scenario che costringe a riflettere sul futuro della convivenza, mentre si continua ad osservare l’incidenza sempre maggiore delle ideologie radicali, non solo sul piano politico, ma anche all’interno della sfera pubblica e sociale israeliana.
Israeliani e il ruolo delle istituzioni del processo di radicalizzazione
Al di là del sostegno popolare degli israeliani, quello che colpisce davvero è il ruolo delle istituzioni nel normalizzare politiche che fino a poco tempo fa sarebbero sembrate estreme; la Corte Suprema israeliana, per esempio, ha respinto in modo unanime le petizioni che chiedevano di far arrivare aiuti umanitari a Gaza ed uno dei giudici ha motivato la decisione usando argomentazioni di tipo religioso.
Nel frattempo, alcune organizzazioni per i diritti umani si sono rivolte alla stessa Corte per denunciare Channel 14, emittente vicina a Netanyahu, accusandola di promuovere contenuti che incitano alle espulsioni di massa e, in certi casi, anche alle esecuzioni; questi segnali fanno parte di un di un percorso più lungo, iniziato anni fa, che ha visto un lento ma costante spostamento dell’asse culturale e politico.
Come spiegano Hazkani e Sorek, infatti, già dagli anni 2000 il sistema educativo israeliano ha cominciato a cambiare, introducendo narrazioni che, con il passare del tempo, hanno rafforzato le visioni sempre più radicali soprattutto tra i giovani, ma non tutti sono d’accordo: il Capo di Stato Maggiore, Eyal Zamir ha denunciato che questo approccio potrebbe mettere a rischio la vita degli ostaggi israeliani, prova che testimonia come le spaccature siano presenti anche nei livelli più alti delle forze armate.