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Home » Lavoro » IL CASO/ Quando è legittimo rifiutare di svolgere la propria prestazione lavorativa

  • Lavoro
  • Licenziamenti e articolo 18

IL CASO/ Quando è legittimo rifiutare di svolgere la propria prestazione lavorativa

Ci sono situazioni in cui ci si può rifiutare di svolgere la propria prestazione lavorativa. Alcune sentenze della Cassazione aiutano a individuarli

Angelo Chiello
Pubblicato 14 Maggio 2025
Veduta esterna del palazzo della Corte Suprema di Cassazione (Foto: Ansa, 2024)

Veduta esterna del palazzo della Corte Suprema di Cassazione (Foto: Ansa, 2024)

È legittimo, e non sanzionabile con il licenziamento, il rifiuto da parte del dipendente di rendere la prestazione lavorativa motivato dall’inadempimento, anche parziale, del datore di lavoro ai propri obblighi. Lo ha ribadito la Cassazione con la recente ordinanza n. 6966/2025, precisando che il rifiuto del dipendente è legittimo se proporzionato all’inadempimento datoriale e conforme al canone di buona fede.


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Il caso esaminato dalla Cassazione riguardava un dipendente con mansioni di guardia giurata che era stato licenziato per insubordinazione e abbandono del posto di lavoro a seguito del rifiuto di svolgere la propria prestazione lavorativa con l’autovettura messagli a disposizione dalla Società.

La Corte di Appello di Bologna aveva dichiarato la nullità del licenziamento in quanto era stato accertato che l’autovettura fornita dalla Società per lo svolgimento dell’attività lavorativa era troppo piccola rispetto alla corporatura e alla statura del dipendente ed era anche priva di sedile regolabile. Era quindi legittimo il rifiuto del dipendente di svolgere il servizio assegnatogli dalla Società, anche in considerazione del fatto che il dipendente era rimasto comunque a disposizione del datore di lavoro nei giorni contestati fino alla fine del turno.


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Rilevato poi che il lavoratore aveva in precedenza formulato richieste di rotazione dei turni non riscontrate o non accolte e che al lavoratore erano state elevate pressoché contestualmente tre diverse contestazioni disciplinari, due delle quali abbandonate e la terza (quella oggetto della causa) insussistente in fatto, la Corte di Appello di Bologna aveva dichiarato la natura ritorsiva del licenziamento, reintegrando il lavoratore nel posto di lavoro e condannando la Società al pagamento dell’indennità prevista dalla legge.

Nel rigettare il ricorso proposto dalla Società contro la sentenza della Corte di Appello, la Cassazione ha osservato che, nei contratti a prestazioni corrispettive, tra i quali rientra anche il contratto di lavoro, qualora una delle parti adduca, a giustificazione della propria inadempienza, l’inadempimento dell’altra, il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti.


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In particolare, il giudice deve considerare i rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute rispetto alla funzione economico-sociale del contratto, alla luce dei reciproci obblighi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., e ai sensi dello stesso cpv. dell’art. 1460 c.c., affinché l’eccezione di inadempimento sollevata dal lavoratore sia conforme a buona fede e non pretestuosamente strumentale all’intento di sottrarsi alle proprie obbligazioni contrattuali.

La Cassazione ha quindi rilevato che la Corte di Appello di Bologna aveva fatto corretta applicazione dei principi, ricavando, dagli elementi di fatto raccolti, la prova della buona fede del lavoratore nell’opporre eccezione di inadempimento a ordini di servizio impraticabili.

Ugualmente legittimo è stato ritenuto dalla Corte di Appello di Milano, con sentenza confermata dalla Cassazione nel gennaio di quest’anno (Cass. 30.1.2025 n. 2153), il comportamento del dipendente, che pure svolgeva mansioni di guardia giurata, che non si era presentato al lavoro presso la nuova sede dove era stato assegnato dopo il rientro da un infortunio, adducendo la propria condizione di “handicap con gravi limitazioni deambulatorie“.

Sulla scorta del giudizio espresso dal medico competente, che aveva ritenuto il lavoratore “idoneo con limitazioni/prescrizioni”, la Corte di Appello di Milano ha espresso l’avviso che il rifiuto opposto dal lavoratore di rendere la prestazione lavorativa era giustificato dall’inadempimento della Società, condividendo poi con il Tribunale il giudizio di “insussistenza del fatto addebitato” ai fini della applicazione della tutela reintegratoria prevista dal quarto comma dell’art. 18 L. 300/1970.

Nel confermare la sentenza della Corte di Appello di Milano, la Cassazione ha chiarito che il lavoratore non è tenuto a rivolgersi a un giudice ovvero al medico competente prima di attivare il disposto dell’art. 1460 comma 2, c.c.; alla stregua di tale norma, invece, il lavoratore può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico, sempre che tale rifiuto non risulti contrario a buona fede, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, quali la “entità dell’inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto” ovvero la “concreta incidenza del detto inadempimento datoriale su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore” (Cass. n. 4404 del 2022).

È bene sottolineare che non qualsiasi inadempimento datoriale può giustificare il rifiuto del lavoratore di adempiere alla propria prestazione.

Con ordinanza n. 836 del 2018 la Cassazione ha ritenuto, ad esempio, che “il lavoratore adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi senza avallo giudiziario di eseguire la prestazione richiestagli, essendo egli tenuto a osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall’art. 41 Cost., e potendo egli invocare l’art. 1460 c.c., solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro, o che sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo”.

In quel caso, la Corte ha cassato la sentenza di appello di accertamento dell’illegittimità del licenziamento del lavoratore che, adibito a mansioni inferiori per circa due mesi, aveva eccepito l’inadempimento datoriale e si era assentato per oltre quattro giorni dal posto di lavoro.

Dunque: prima di rifiutarsi di eseguire la propria prestazione lavorativa il lavoratore deve fare molta attenzione e ponderare bene la gravità dell’inadempimento datoriale. Il rischio – in caso di rifiuto contrario a buona fede – è la perdita del posto di lavoro.

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