ILVA TARANTO/ Quell’Italia ancora “ostaggio” dei giudici d’acciaio

- Augusto Lodolini

I giudici di Taranto hanno deciso di impugnare davanti alla Corte Costituzionale la legge sull’Ilva voluta dal governo. AUGUSTO LODOLINI ne commenta le conseguenze per l'economia italiana

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Credo diventi sempre più difficile individuare una logica in ciò che sta avvenendo attorno all’Ilva. Dico attorno all’Ilva, perché quello che sta accadendo dentro lo stabilimento, così come negli altri siti operativi del gruppo e nell’indotto, è drammaticamente chiaro: cassa integrazione, scioperi, probabili licenziamenti e fallimenti. E’ difficile, perché sembrerebbe un braccio di ferro instaurato dalla magistratura con il potere esecutivo, di cui è francamente problematico trovare una spiegazione che non sia la difesa di una astratta concezione del diritto e l’affermazione del “potere” giudiziario.

L’ultimo atto di questo psicodramma è la decisione dei magistrati di Taranto di sollevare presso la Corte Costituzionale una questione di legittimità sulla legge 231/123, la cosiddetta “salva-Ilva”, continuando così a tenere bloccate le 1,7 tonnellate di acciaio già prodotte, per un valore di un miliardo di euro. A quanto pare, la Corte prenderà in considerazione il ricorso a metà febbraio.

La procura di Taranto considera il blocco necessario ad assicurare la protezione della salute dei cittadini e accusa il governo di dare precedenza agli interessi economici e produttivi. Questi due interessi, in parte contrapposti, sono certamente entrambi da tutelare, ma non appare così evidente il danno causato alla salute dei cittadini dalla commercializzazione di acciaio già prodotto e bloccato nel porto. Questo, ovviamente a buon senso, perché in punta di diritto si arriva, a quanto pare, alla conclusione opposta.

Nel leggere quanto riportato dalla stampa sul ricorso dei giudici, c’è da rimanere traumatizzati: la 231/12 violerebbe non solo ben undici articoli della nostra Costituzione, ma anche diversi articoli della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e perfino il Trattato di Lisbona. Inevitabile chiedersi a cosa pensasse il Presidente Napolitano quando ha controfirmato, senza accorgersene, provvedimenti così sovversivi. E non ci si può neppure sottrarre alla sensazione che i giudici siano andati un po’, come dire, “ad abundantiam”, tanto per stare sul sicuro.

Le prime avvisaglie sulle conseguenze di queste decisioni sono venute dagli Usa, con l’annullamento di un contratto del valore di 25 milioni di dollari per la fornitura di 25000 tonnellate di tubi grezzi per un oleodotto in Oklahoma. La prima tranche di consegna è rimasta tra l’acciaio bloccato nel porto ed è evidente l‘effetto negativo che tutto questo avrà su possibili future commesse dall’estero.

E’ noto che l’Ilva di Taranto vale circa il 40% della produzione di acciaio italiano, percentuale che sale a quasi due terzi per i prodotti piani, e che un suo blocco definitivo sarebbe distruttivo per l’industria manifatturiera italiana. Le conseguenze sono ben delineate nelle due interviste de IlSussidiario ai professori Aristide Police e Lorenzo Caselli, nelle quali viene rilevata l’importanza del fattore tempo, che si dilaterà ulteriormente con il ricorso alla Corte Costituzionale, e le caratteristiche di processo della produzione dell’acciaio, per cui il blocco a Taranto sta mettendo in crisi anche gli altri stabilimenti, italiani ed esteri, del gruppo.

Il Sole 24 Ore riporta l’analisi del centro studi specializzato Siderweb, dalla quale emergono altri dati preoccupanti per il nostro sistema economico. Non potendo più utilizzare l’acciaio dell’Ilva, la nostra industria dovrà rivolgersi a produttori stranieri, con incrementi nei costi e riduzione dei tempi di pagamento, essendo i nostri tra i più dilazionati in Europa. Due elementi, questi, estremamente negativi in un periodo di crisi e di stretta creditizia. Inoltre, i produttori stranieri utilizzeranno loro circuiti di commercializzazione, mettendo in seria crisi le attuali strutture di distribuzione dell’Ilva. L’elenco potrebbe continuare, con i riflessi sull’occupazione, la bilancia dei pagamenti, la riduzione delle entrate per lo Stato, in concomitanza con la necessità di stanziamenti per la bonifica, e via dicendo.

Dura lex, sed lex. Ma siamo sicuri che davvero non vi fossero altre soluzioni meno drastiche? Eppure, non è eccezionale nel nostro Paese vedere una magistratura inquirente che non si limita ad applicare pedissequamente la legge, ma la interpreta, adattandola alla valutazione che dà sui vari casi. E, francamente, sembra che anche questa volta sia andata così, solo che, almeno a chi scrive, la logica sottostante continua a rimanere oscura.







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