ELEZIONI USA 2012/ Le speranze dei mercati dopo la vittoria di Obama
Le riflessioni sull’impatto economico-finanziario di queste elezioni continuano da mesi, non fosse altro perché gli Usa sono ancora la prima economia del pianeta. Ne parla PAOLO ANNONI

Il risultato delle elezioni Usa ci dice che il presidente continuerà a essere Barack Obama, come da attese. Inutile dire che le riflessioni sugli impatti economico-finanziari di queste votazioni continuano da mesi, non foss’altro perché gli Stati Uniti sono ancora la prima potenza economica del pianeta e perché dall’inizio della crisi il ruolo della Fed è stato più volte determinante per i destini dell’economia globale.
Le conseguenze della rielezione di Obama sono molteplici e riguardano settori e aspetti diversissimi del panorama economico. La prima considerazione d’obbligo è che, a prescindere dai diversi programmi, la rielezione di Obama porta di per sè un bene in questi giorni scarso sui mercati e cioè aggiunge un minimo di certezze su mercati già alle prese con una serie di infiniti e odiati elementi di incertezza che nei mesi scorsi si sono spinti “perfino” sul terreno della sopravvivenza delle valute. Romney si sarebbe dovuto affrettare a stemperare i toni anti-cinesi o iraniani da campagna elettorale o a rintuzzare i timori che i mercati avrebbero avuto su un cambio alla Fed. In questo senso la rielezione di Obama in quanto tale è un elemento positivo per i mercati almeno nel breve periodo.
Solo dopo questa premessa si può iniziare la riflessione sui problemi economici americani e su come Obama potrebbe tentare di risolverli. I problemi sono due e non sono molto dissimili da quelli che sta affrontando l’Europa: come promuovere la crescita e diminuire il debito pubblico. È un fatto che sotto Obama la Fed abbia adottato una politica monetaria espansiva e che sia sempre intervenuta in soccorso dei mercati finanziari quando necessario. Le critiche di Romney al lancio di un terzo quantitative easing non sono piaciute ai mercati, mentre i programmi di Romney prevedevano più tagli e in minore tempo al budget federale di quanto prevedano quelli di Obama.
La sensazione è che Obama tenterà di limitare il più possibile i danni del riequilibrio dei conti pubblici che nemmeno l’America può evitare. L’ormai mitologico “fiscal cliff” e le sue conseguenze sull’economia americana sono oggi al centro delle preoccupazioni degli investitori. Su questo tema le cose si complicano ulteriormente; non è solo una questione di Obama-Romney, ma anche di maggioranze “parlamentari” e autorità presidenziale. Una vittoria risicata o un congresso spaccato, anche dopo l’elezione di Obama, potrebbe impedire di ottenere un accordo rapido ed efficace per evitare il fiscal cliff tenendo magari i mercati con il fiato in sospeso per qualche settimana sui destini finanziari degli Stati Uniti.
L’ultimo “macro-tema” riguarda la cosiddetta riforma di Wall Street o meglio le norme che potrebbero essere introdotte per cambiare i meccanismi profondi che regolano i mercati finanziari americani. È indubbio che almeno all’inizio del suo mandato Obama abbia provato, anche con la consulenza dell’ex presidente della Fed Volcker (nominato consulente del presidente proprio da Obama), a limitare alcune delle prassi finanziarie che hanno giocato una parte centrale nell’origine della crisi. La Volcker rule, per esempio, che poneva limiti sostanziali alle banche su alcune attività speculative è del gennaio 2010. In questo senso Romney appariva più amichevole di quanto lo sia Obama nei confronti di “Wall Street”.
È probabile però che Wall Street abbia preferito essere sicura di una politica espansiva prendendosi qualche minimo rischio dal lato regolamentare; minimo rischio perchè Obama in questo senso è stato limitato molto bene e perchè potrà esserlo ancora in futuro da mercati e istituzioni finanziarie ben lontani dalle condizioni pietose di fine 2008 e inizio 2009, quando si è aperta probabilmente l’unica fase vera in cui si poteva pensare di riformare realmente la finanza. L’endorsement del Financial Times di qualche giorno fa per Obama è da questo punto di vista emblematico e indica che i timori di una riforma della finanzia “punitiva” o anche solo sostanziale sono minimi.
Tra i vari temi “settoriali” che le elezioni hanno sollevato dalla spesa per la difesa, alla riforma sanitaria, passando per le energie rinnovabili, le tasse sui redditi alti e le plusvalenze finanziarie, su cui non c’è per la verità molto di incerto, uno in particolare desta interesse. Ieri, per esempio, il petrolio è salito di un rotondo 3%, probabilmente dando il primo vero “exit poll” sull’esito elettorale. Due elementi a questo riguardo legano Obama al rialzo dell’oro nero: il primo è sulle maggiori speranze in un terzo quantitative easing che, come da copione, spinge al rialzo tutte le commodities (anche l’oro ha festeggiato ieri), il secondo è sulle politiche energetiche di Romney che spingevano per l’indipendenza energetica del continente (Stati Uniti, Canada e Messico) e che avrebbero spinto sull’estrazione di petrolio e su una minore dipendenza dalle aree “calde” del pianeta.
In ogni caso il risultato di oggi non risolve neanche la metà delle domande e dei dubbi che il mercato ha sui destini economici americani del prossimo anno e su come e se l’America riuscirà a trovare una via sostenibile per uscire dalla crisi e per risolvere i problemi di deficit, soprattutto in un mondo in cui l’Europa rimarrà un’incognita e un elemento di instabilità e crisi anche per i prossimi anni (chiedere alla Merkel perché). Data per persa l’Europa per i prossimi cinque anni per stessa ammissione del suo leader politico (sempre la Merkel) la vera domanda è se gli Stati Uniti riusciranno a sganciare la propria economia dai destini nefasti di quella europea, Germania esclusa; è questa probabilmente la vera sfida che aspetta gli Stati Uniti di Obama.
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