Circostanze luttuose come la morte di papa Francesco sospingono la memoria personale all’indietro, come a voler compensare l’impatto dell’amara sorpresa dell’addio mattutino con l’impatto della sorpresa iniziale del benvenuto vespertino: “Buonasera…” e cercare di trovare il senso d’una parabola che ha chiuso il suo corso. Non tanto quella esistenziale di chi l’ha compiuta – per quella ci saranno amici, biografi e studiosi – bensì quella di chi l’ha seguita a distanza, qualsiasi sia stato il punto di osservazione: ciascuno, ogni singolo fedele e infedele, ha il proprio e ciascuno contiene una peculiare suggestione.
Tra quei due poli (inizio e fine) s’è snodata una presenza spirituale e pubblica davvero imponente, un pontificato che s’è impresso se non altro per quella mistura di sensazioni di novità e di spiazzamento, di guida gesuiticamente prudente e temperamentalmente spericolata, di osanna ideologici e di mugugni ecclesiali, di semplicità di cuore e sottigliezza diplomatica. Questo a un’osservazione “satellitare”, ma poi a un certo punto occorre dismettere la terza persona e introdurre lo sguardo dell’io.
Confesso di essere stato spiazzato da Jorge Mario Bergoglio diventato papa Francesco; mi ero costruito la speranzosa aspettativa di un pontificato “wojtyliano” made in America Latina, cospicuo e promettente continente-serbatoio di anime cattoliche da condurre a una pacifica riscossa “alla polacca” contro le oppressioni della storia; certo, c’era stato l’interludio di Ratzinger, sobriamente consapevole del futuro minoritario della cattolicità, perlomeno quella europea, però la vitalità latinoamericana, l’inclinazione alla lotta degli argentini – ricordiamo che il leggendario guerrigliero “Che” era di Rosario – mi inducevano a credere, meglio, a sperare, che il pontificato bergogliano avrebbe avuto questa cifra, che avrebbe volato sulle ali d’una sollevazione, non violenta, del popolo sudamericano e che ciò avrebbe costituito un salutare esempio anche per le intorpidite genti del Vecchio Continente.
Naturalmente, e per fortuna, la vita ha smentito queste mie ingenue congetture: Francesco, pur amando profondamente la sua terra d’origine, non ci è mai andato in visita da Papa e la situazione dei popoli latinoamericani non ha dato – mi pare – visibili segni di scuotimento, non c’è stato un Wałęsa argentino o una Solidarność latina a difesa dei poveri.
Eppure mi sento di dire che qualcosa di quella mia fallace “previsione” s’è avverata: ho visto lottare senza sosta quell’uomo, quel Papa, contro la povertà materiale che opprime moltitudini e contro quella spirituale che devasta altre moltitudini.
A tutti ha richiamato la vocazione cristiana alla solidarietà, tutti ha incitato al valore primordiale della speranza (citando anche Péguy): l’ha fatto in tutti i modi. Coi suoi modi, spicci e diretti. Garbati e sgarbati. Persuasivi e urticanti. E quanto ai tanti o ai pochi che l’hanno seguito, il numero non è comunque un indicatore valido: basta ricordare lo sbalzo tra le folle dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme e la solitudine di qualche giorno dopo sul Golgota.
“Di nessuno seguo l’esempio, nessuno a dirigermi viene, io dico ciò che va detto, e chi in tal guaio si pianta deve cantar quando canta con tutta la voce che tiene” recita un verso del poema nazionale argentino Martín Fierro, un fiero gaucho in perenne lotta contro avversità e ingiustizie e alla ricerca di una umanità più autentica. Ed è impressionante riscontrare quanto i versi di quell’opera dal sapore epico e picaresco abbiano ispirato e nutrito la mentalità e l’espressività bergogliana, fino a una sorta, verrebbe da dire, di identificazione.
“El hombre no mate el hombre” Francesco ha ripetuto con Fierro senza sosta ai troppi belligeranti di questo tempo. Sì d’accordo, è un insegnamento universale di Cristo, cui però l’incarnazione poetica nazionale conferisce, se possibile, ulteriore vigore – e ciascuna nazione possiede le proprie “incarnazioni” (“ma tu, foco d’amor, lume del cielo, questa vertù che nuda e fredda giace levala su vestita del tuo velo, ché sanza lei non è in terra pace”: Dante su giustizia e pace).
E poi i “lunfardismi” bergogliani, quel suo disinibito far ricorso alle distorsioni e ai neologismi del porteño, il dialetto popolare bairense, spregiudicatamente brandito dal combattente Francesco quasi in alternativa all’algido perfettismo dell’omiletica ecclesiastica, fino al conio di nuove parole come la stupenda “misericordiando”. Anche quella contro la comunicazione standardizzata e anodina è stata una lotta.
E così il papa gaucho ha trasformato l’orbe intero nella sua amata pampa in cui si dispiega l’avventura umana di Fierro, ha fatto l’andirivieni (la “ida” e la “vuelta”) tra il mondo civilizzato e quello selvaggio, tra i gringos e i criollos, tra l’Occidente e il resto del mondo. Portando a tutti, opportune et importune, la speranza di Gesù, segno di contraddizione. E rimanendo il ribelle, devoto di Maria, che è sempre stato. Grazie Francesco, per tutte le volte che mi hai smentito, per tutte le volte che non ti ho capito.
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