Nel luglio scorso ho potuto ricevere il premio JA-YE Europe Teacher of the Year 2010. Caroline Jenner, direttore generale di JA-YE Europe, presentando le motivazioni del premio ha detto: “Armando è un docente eccezionale. Il suo insegnamento internazionale e transfrontaliero è stata una fonte d’ispirazione per gli studenti e i colleghi in un gran numero di Paesi europei. Armando continua ad andare oltre il senso del dovere per supportare suoi studenti e JA-YE nel loro lavoro di ogni giorno”.
Dove trovano fondamento queste parole? Innanzitutto un profondo grazie al mio Istituto, l’Imiberg, a chi lo gestisce e a chi lo realizza quotidianamente. Solo la grazia di poter lavorare con persone che umanamente hanno una posizione seria e positiva sul reale, mi ha consentito di guardare al mio lavoro con un interrogativo sempre aperto: perché siamo chiamati ad essere “maestri”?
La risposta non è banale. Provo a raccontare la mia storia con alcuni episodi tratti dal mio lavoro quotidiano che mi permettono di esemplificare le idee che sono alla base del lavoro che quotidianamente come insegnanti siamo chiamati a svolgere.
Innovare a scuola
Come si può immaginare l’innovazione all’interno della Scuola? Innovazione marketing? Innovazione di processo? Innovazione di prodotto? Ma cosa si intende per innovazione? Lungi da me l’idea di rinchiudere in una “definizione” qualsiasi cosa (sarebbe contrario a tutto l’impianto di insegnamento in cui credo), ora però è proprio necessario per introdurre il contributo innovativo alla didattica che caratterizza la nostra proposta educativa. Per innovazione si intende un’attività di pensiero che, elevando il livello di conoscenza attuale, perfeziona un processo migliorando quindi il tenore di vita dell’uomo. Innovazione è cambiamento che genera progresso umano; porta con sé valori e risultati positivi, mai negativi.
Attenzione però perché qui non si parla di prodotti o di servizi (che hanno come destinatari le persone, certo), ma di capitale umano, di persone che sono nel loro momento più importante di crescita. Perciò cosa significa innovare nella scuola? Significa stimolare ogni giorno la curiosità e l’attenzione proprie e degli studenti perché accada quello che si è enucleato nella definizione di “innovazione”: un pensiero nuovo su un prodotto o su un processo che elevi il tenore di vita dell’uomo.
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Un esempio? Ecco che nel 1999 entra in classe una studentessa dicendo: “Piove e gli ombrelli in auto bagnano tutto, sedili, libri, vestiti… e che odore di muffa poi!”. Poiché è dal 1996 che la nostra scuola propone la didattica del “learning by doing” colgo al volo l’occasione e stimolo gli studenti: “Bene, questo si chiama bisogno. Come possiamo rispondere a questo bisogno? Con quali prodotti o servizi?”.
Da quel momento diviene sempre più chiaro a tutti cosa significa “innovare” e soprattutto cosa significa paragonarsi con la realtà. E da lì nasce “Autorainbow”, il primo portaombrelli per auto brevettato dalla nostra scuola. Non solo, si consolida un’innovazione didattica che ha portato nel corso degli anni ai numerosi progetti imprenditoriali, riconosciuti a livello italiano ed europeo con numerosi premi.
Trasmettere il senso di responsabilità
Come è possibile trasmettere il “senso di responsabilità” agli studenti, la comprensione della causa-effetto rispetto alla realtà tutta che ci si trova davanti (obiettivi aziendali o crescita di sé pari sono)?
Mi piace partire da una frase che una mia alunna ha pubblicato su un periodico locale per spiegare la sua posizione di fronte al lavoro proposto dalla nostra didattica.
Sulla Cronaca di Bergamo del gennaio 2006 sotto il titolo “Chiediamoci il perché…” appare questa considerazione: “Faccio questa esperienza perché penso che in un modo o nell’altro possa arricchirmi, non so precisamente dove mi porterà, ma so che ho intenzione di tenere aperte tutte le porte anche solo per fare entrare quel qualcosa che magari riesce a dare un senso in più alla vita, al lavoro e a una posizione seria davanti alla realtà.”
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Di fronte a una consapevolezza così forte non del risultato finale, ma di una posizione interessante per la propria vita di fronte a tutto, cosa si può dire? Se una persona e, ovviamente, un corpo docente sono in grado di far suscitare un paragone così grande di sé con la realtà che si ha davanti, allora, concludiamo, significa che a loro volta hanno ben chiara la responsabilità e le implicazioni delle azioni intraprese per prima cosa su di sé. E poi anche sugli altri. Insomma, sono chiare le motivazioni che spingono una persona a fare il proprio mestiere e in particolare, nel nostro caso, quello di “maestro”. Mi ha fatto molto piacere ricevere a luglio 2010, da due alunne diplomatisi nel 1998, una mail di ringraziamento. “Il regalo più bello che una persona possa ricevere è la cultura… che non deve essere una semplice raccolta di nozioni, ma sviluppo di capacità critica che permetta alla persona di andare oltre nelle cose… senza schemi e pregiudizi. Facendo diventare l’esperienza la nostra più grande maestra!! … Grazie per averci insegnato ad andare oltre!”
Internazionalizzare la proposta educativa
Nei primi anni della mia esperienza con i nostri studenti in contesti europei ho sempre avuto l’occasione di constatare che i miei studenti, seppur ben preparati rispetto alla loro esperienza imprenditoriale, mi dicevano: “Prof., noi abbiamo idea di quel che vogliamo dire per spiegare alla Giuria la nostra idea imprenditoriale perché è la nostra esperienza, ma quando ci troviamo di fronte uomini di impresa, liberi professionisti, docenti universitari come Giuria internazionale del nostro lavoro, pensiamo in italiano, ma poi è difficilissimo trasformare il concetto in inglese.”
E così vedevo gli studenti nordeuropei ugualmente motivati quanto i nostri, ma senza alcuna difficoltà di registro linguistico. Ponevano al momento giusto la battuta in inglese, l’espressione ad effetto, creando così le giuste premesse al dialogo e alla sintonia con gli stessi giudici.
In modo un po’ pilatesco (ed è la scusa della scuola italiana in generale) si analizzava questo fatto nascondendosi dietro un: “Eh già, noi italiani abbiamo una tradizione culturale linguistica molto forte e radicata. Tanto è vero che tutti i film e i telefilm inglesi sono automaticamente doppiati in italiano! Non facciamo fare nessuno sforzo linguistico ai nostri ragazzi!” Ma questo rappresentava un handicap in questi contesti. Pensate, ed è sotto gli occhi di tutti coloro che vanno all’estero, che quasi tutte le televisioni europee trasmettono in lingua originale con eventuali sottotitoli nella lingua nazionale. Si creano cioè le cosiddette “condizioni ambientali” di apprendimento che i nostri studenti italiani non hanno la possibilità di sperimentare.
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Quindi una cultura come quella italiana, con apici di straordinaria bellezza, può essere fonte di problemi per i nostri studenti nei registri linguistici con gli altri Paesi? Ho sempre reagito dicendo a me stesso che non potevo adeguarmi a questa seppur suggestiva spiegazione. Ho sempre pensato che fosse dovere prioritario degli insegnanti proporre la nostra bellissima tradizione linguistica, però allo stesso tempo creando le “condizioni ambientali” di apprendimento, cioè tantissime occasioni perché gli studenti fossero letteralmente coinvolti in proposte educative con a base il registro linguistico di altre culture.
Per questo motivo ho sempre impostato la mia azione (sempre in linea con l’ipotesi educativa dell’Istituto) in funzione della creazione di momenti di incontro con il registro linguistico anglosassone e con l’ulteriore caratteristica del “learning by doing” ovvero del mettere alla prova gli studenti “gettandoli nell’arena” del problema, cioè mettendoli di fronte alla difficoltà perché potessero essere in grado di affrontarla.
Il dialogo con i genitori
Parecchi sono gli stakeholders di una scuola (studenti, genitori, territorio, società in generale). In particolare il dialogo con i genitori ha un ruolo fondamentale. Infatti chi, essendo genitore, non ha mai vissuto questa scena al colloquio con il docente del proprio figlio: apertura del registro “Dunque, lei è il genitore di… Ah sì, guardando i voti va bene (oppure va male) perché i voti sono questi, questi e questi altri”. Ma come? Mio figlio è determinato dai voti che ottiene? Che orientamento al cliente è questo? Abbiamo a cura lo studente o i suoi voti? Ovviamente non si vuol dire che i voti non sono importanti, anzi, ma non possono essere il metro di tutto. È il concetto espresso prima: si parte dalla storia della persona, dai suoi progressi (o regressi naturalmente) rispetto al punto di partenza e i voti vanno inseriti in questo contesto, non vanno assolutizzati.
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È un cambiamento epocale anche di visione sul proprio lavoro che bisogna tenere presente nel rapporto con i genitori. Il momento del colloquio è considerato importantissimo proprio nell’ottica di un reciproco arricchimento di conoscenze sullo studente, e quindi non può essere relegato ad un semplice elenco di voti. Sia il genitore, sia il docente devono uscire consapevoli di conoscere di più lo studente, di avere uno sguardo positivo sulla persona che ovviamente non vuol dire essere “buonisti”, ma semplicemente di avere bene in mente quali sono i passi precisi da chiedere allo studente e al proprio figlio. Poi sarà sempre la libertà sua a decidere di aderire o meno, ma ci deve essere sempre la chiarezza nei passi da fare e degli obiettivi (come persona) da raggiungere.
Armando Persico, docente nella scuola IMIBerg – Bergamo