Il caso Ilva impazza sui giornali e sui social ove si assiste a una serie di aspre accuse tra fan di opposti schieramenti politici. All’attenzione per la vita e per il lavoro sembra sostituirsi l’italico istinto di ricercare responsabilità individuali e collettive, il cui perseguimento è da sempre in grado di tranquillizzare le coscienze assai più che l’effettiva risoluzione dei problemi. In questo quadro, il punto non è trovare chi abbia ragione e chi, invece, abbia torto, ma come far coesistere le legittime aspirazioni al lavoro con la altrettanto legittima richiesta di qualità ambientale.
Un semplice cambiamento del punto di osservazione della realtà ci offre una possibile risposta. Basta, infatti, guardare il territorio dal cielo o, laicamente, da una ortofoto satellitare per comprendere come il cuore del conflitto sia nell’assurda contiguità fisica tra l’acciaieria e il quartiere Tamburi, ove si registrano quotidianamente picchi di inquinamento ben al di sopra della norma e di una serena tollerabilità. Perché, allora, non risolvere alla radice un problema che esisterà comunque nei prossimi decenni, quali che siano i pur doverosi adeguamenti ambientali dei cicli produttivi cui perverranno i gestori dello stabilimento? Perché non pensare a un completo trasferimento dei residenti verso una città nuova, edificata secondo le più moderne concezioni ambientali e funzionali?
Sono poco più di 17.000 gli abitanti dell’area più contigua alla fabbrica, per un numero di residenze stimabile, con ordinari parametri di composizione dei nuclei familiari, in circa 5.000. Numeri di gran lunga inferiori a una delle tante emergenze post-sisma affrontate dal Paese, con maggiore o minore successo, negli ultimi anni. Calcoli grossolani porterebbero a individuare un fabbisogno di circa 600 milioni di euro, meno della metà di quello che Alitalia ha bruciato negli ultimi 24 mesi. Si tratterebbe di una scommessa complessa quanto affascinante, certamente da affrontare con leggi e procedure speciali per evitare le consuete paludi burocratiche. Una scommessa in grado non solo di tenere insieme le esigenze di qualità della vita e le ragioni del lavoro, ma anche di accrescere le opportunità di sviluppo grazie all’insediamento di un grande cantiere urbano.
Sarebbe una straordinaria e irripetibile occasione di creare una nuova città con le più recenti dotazioni tecnologiche e ambientali che il ventunesimo secolo possa offrire. Un caso da manuale, insomma, che passerebbe alla Storia. L’attuale quartiere Tamburi potrebbe, così, ospitare un enorme parco verde e la nuova area urbana diverrebbe un’eccezionale opportunità di riscatto e di crescita di quella comunità. È un progetto per cui occorre una visione di medio periodo. Esattamente quella che da anni manca alla politica italiana.