Fa capolino nella maggioranza, in modo discreto, l’ipotesi di un ddl costituzionale per tornare alla vecchia versione dell’immunità parlamentare in vigore fino alla riforma del 1993. Il 29 ottobre di quell’anno il presidente della Repubblica promulgava una nuova legge costituzionale, la n. 3/1993, “Modifica dell’articolo 68 della Costituzione”. Firmato: Scalfaro, a seguire il presidente del Consiglio, Ciampi, e il Guardasigilli, Conso. Era il trionfo di “Mani pulite” e l’insostenibile pesantezza di quella pressione mediatico-giudiziaria sancì una rivoluzione nei rapporti tra politica e magistratura che dura tuttora.
E così qualcuno ha deciso di provare a rimettere le cose a posto. La cronaca politica attribuisce l’iniziativa a Tommaso Calderone, capogruppo di FI in commissione Giustizia alla Camera, già relatore del ddl sulla separazione delle carriere. La Lega è d’accordo e vien da pensare che lo sia anche FdI, più defilato per ragioni di opportunità politica. M5s, Pd e Avs, tutti partiti che sono figli o nipoti di Tangentopoli, fanno muro, come era prevedibile.
Saluta positivamente l’iniziativa della maggioranza Mario Esposito, ordinario di diritto costituzionale nell’Università del Salento e docente alla Luiss di Roma. La vecchia immunità, quella voluta dai costituenti nel 1948, era una garanzia vera, quella post 1993 è una brutta copia che di fatto lede i diritti costituzionali dei cittadini.
Professore, si affaccia nella maggioranza l’ipotesi di ripristinare l’immunità parlamentare in vigore fino al 1993. Per ora non è dato saperne di più. Come accoglie la notizia?
È difficile valutare sulla base di mere intenzioni: occorrerà capire, per esempio, se si intende riproporre esattamente la stessa formulazione. Nel frattempo non mi sorprendo che il solo prospettare questa volontà provochi levate di scudi. Il punto è che sul filo di quella disposizione corre una vera e propria soluzione di continuità tra due assetti costituzionali diversi.
Quella modifica costituzionale è stata un vero e proprio spartiacque, è questo che intende?
Certo. C’è un prima e un dopo 1993. Il parlamento modificò l’articolo 68 della Costituzione quasi auto-sanzionandosi per le accuse di abuso del diniego di autorizzazione a procedere. Erano gli anni di Tangentopoli, del crollo di quel sistema partitico che, oggettivamente, era stato elemento portante dell’ordinamento costituzionale.
C’è davvero tutta questa differenza tra l’articolo 68 nelle due versioni?
Dobbiamo distinguere i vari tipi di immunità. Il primo tipo, dal punto di vista della norma, è rimasto sostanzialmente immutato: si tratta dell’assoluta insindacabilità dei membri del Parlamento per i voti dati e per le opinioni espresse. Una garanzia essenziale per l’esercizio del libero mandato parlamentare, alla quale si è data opportuna attuazione con una legge che chiarisce – o cerca di chiarire – che tale mandato non si esaurisce nell’attività interna alle Camere, ma riguarda più ampiamente l’attività politica che deputati e senatori svolgono e devono svolgere nel rapporto con la collettività rappresentata. In questo modo si attribuisce dovuto rilievo alla titolarità della rappresentanza in capo ad ogni singolo parlamentare.
Quale altra immunità ci sarebbe?
Quella disciplinata dal secondo e dal terzo comma dell’art. 68. È l’inviolabilità personale ed è stata invece profondamente modificata. Nel testo originario, sulla scorta di una tradizione che fa capo al costituzionalismo francese, nessun parlamentare poteva essere sottoposto a procedimento penale senza autorizzazione della Camera di appartenenza. E l’autorizzazione era necessaria anche per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile.
Oggi, invece?
Oggi l’autorità giudiziaria può procedere “liberamente” contro un membro delle Camere e le sentenze irrevocabili si eseguono senza necessità di alcun intervento autorizzativo. Sono state invece integrate le fattispecie di cosiddetta autorizzazione a procedere ad acta: in sostanza, quelle che riguardano l’applicazione di misure restrittive delle libertà personale, domiciliare e di comunicazione.
Come si spiega la scelta originaria dei costituenti?
L’inviolabilità ha grande importanza. Si è detto, è vero, che una volta assicurata in Costituzione l’indipendenza della magistratura dall’esecutivo, sarebbe mutata la funzione delle immunità parlamentari, volte ormai a proteggere il parlamentare da singole iniziative giudiziarie arbitrarie. Ma è una tesi che non centra il punto.
Per quale motivo?
Perché in questo modo non si considerano due aspetti importanti. Innanzitutto il fatto che, paradossalmente, un ordine giudiziario autonomo ed indipendente può anch’esso fuoriuscire dai limiti delle proprie attribuzioni: il conflitto tra rappresentanti e ordine giudiziario, anche se lo si dimentica, ha fortemente caratterizzato l’esperienza costituzionale moderna, quella francese in particolare.
E l’altro aspetto?
Si dimentica che al potere legislativo, in quanto esercitato da diretti rappresentanti della nazione, compete, nel nostro ordinamento, una preminenza funzionale rispetto a tutti gli altri poteri, compreso quello giudiziario. Deputati e senatori devono poter liberamente disciplinare l’attività degli altri poteri. Ma c’è ancora un altro profilo da considerare.
Quale?
È noto che l’autorizzazione a procedere finiva per assorbire anche i casi di immunità sostanziale, ossia di insindacabilità, nel momento in cui l’autorità giudiziaria intendeva procedere penalmente contro un parlamentare per fatti ritenuti riconducibili alla prerogativa in questione. Venuta meno l’autorizzazione, sono aumentati esponenzialmente i conflitti di attribuzione tra Camere e ordine giudiziario, con l’inevitabile conseguenza di gravare la Corte costituzionale del compito di definire l’area dell’attività politica ai sensi dell’art. 68, comma 1, Cost. In altri termini, ora spetta alla Consulta definire il perimetro del mandato parlamentare e quindi delle relative garanzie.
Ai nostri lettori è una dinamica che dovrebbe suonare ormai familiare.
Infatti. Eppure le immunità parlamentari – diceva autorevolmente Mario Dogliani – sono strettamente connesse con la “totale libertà del Parlamento nella scelta dei comportamenti che realizzano la funzione rappresentativa”, rendendo inammissibile ogni controllo dell’autorità giudiziaria.
La riforma dell’articolo 68 ha 32 anni. Cosa ci insegna il mutamento subìto dal sentire dei cittadini e del legislatore in questo arco di tempo?
Nel lungo periodo, ritengo che occorra riflettere molto seriamente sul nesso che intercorre tra immunità parlamentari e tutela dei diritti costituzionali dei cittadini, politici e non soltanto. Le immunità non possono considerarsi, anche se lo si continua a fare, come eccezioni alla regola dell’eguaglianza: esse sono strumentali al mandato parlamentare, che è uno strumento di esercizio della sovranità popolare.
Basterebbe un ripristino dell’articolo 68 nella vecchia formulazione? O andrebbe emendato?
Potrebbe bastare il ritorno alla vecchia formulazione. Va detto che, fatta salva l’identità sostanziale del ripristino, una riforma condivisa sarebbe un segno molto positivo di rinvigorimento della rappresentanza parlamentare.
È anche necessario chiedersi cosa farebbe il Paese, nell’ipotesi che l’opposizione sia contraria e si vada a referendum su una modifica della Costituzione di questa portata.
Ritengo che si debba sempre ritenere maturo il Paese in ordine a scelte fondamentali. Il punto delicato è però una corretta informazione, che metta in luce gli elementi durevoli di queste decisioni e sottolinei che ogni diminuzione delle garanzie originariamente previste dal Costituente per l’esercizio della libera attività politica ricade fatalmente a carico della collettività, che è il titolare degli interessi costituzionalmente protetti. Il senso del principio di sovranità popolare, in definitiva, è proprio questo.
(Federico Ferraù)
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