ILVA TARANTO/ Bentivogli (Fim-Cisl): lo scontro coi Pm mette a rischio la nostra industria
Il sequestro della magistratura paralizza l’Ilva. Ma perché, si chiede MARCO BENTIVOGLI (Cisl), l’azienda ha per mesi ignorato le disposizioni che l’avrebbero fatta ripartire?

Un’inestricabile matassa in cui ogni problema, invece che essere risolto, ne genera altri; e dove le colpe delle parti coinvolte – magistratura e proprietà – abbondano. Ieri il gip di Taranto, nell’ambito di un filone d’inchiesta sull’Ilva di Taranto, ha disposto l’arresto di sette persone legate all’azienda, tra cui il patron Emilio Riva. Contestualmente, ha messo i sigilli ai prodotti finiti e semilavorati, destinati alla vendita o al trasferimento. In precedenza, il provvedimento aveva riguardato gli impianti dell’area a caldo. L’azienda, dal canto suo, ha reagito comunicando l’immediata chiusura dell’impianto di Taranto. E la “messa in libertà” di 5mila lavoratori. Cifra, nell’immediato futuro, destinata ad aumentare. Abbiamo fatto il punto sulla situazione con Marco Bentivogli, segretario nazionale della Fim-Cisl.
Cosa sta succedendo?
Alla luce di quanto deciso dalla magistratura, l’azienda ci ha comunicato che intende mettere in libertà almeno 5mila lavoratori di tutta l’area a freddo. Saranno, cioè, obbligati a consumare forzatamente le propri ferie.
Dopo, cosa accadrà?
Saranno tenuti in ferie sine die. Sino a quando non si deciderà di utilizzare gli ammortizzatori sociali.
C’è il rischio che queste persone perdano definitivamente il lavoro?
Sì. Stiamo facendo di tutto per scongiurare i licenziamenti veri e propri. Alla bomba ambientale se ne sommerebbe una sociale. Che non interesserebbe solamente i 5mila lavoratori dell’area sotto sequestro. L’eventuale chiusura e il licenziamento del personale che lavora nella struttura determinerebbe drastiche e immediate ripercussioni per tutta l’azienda.
Cioè?
In breve tempo, sarebbe messa a repentaglio l’occupazione dei 20mila lavoratori dell’Ilva di Taranto. E, poco dopo, gli stessi effetti si produrrebbero sugli stabilimenti di Genova, di Venezia, Frosinone e Novi Ligure. In sostanza, il gruppo, in Italia, chiuderebbe. Tale effetto a cascata, inoltre, determinerebbe gravissime ripercussioni su tutta l’industria primaria italiana. Basti pensare che il 40% dell’acciaio, nel nostro Paese, è prodotto a Taranto. Di conseguenza, tutte le industrie che ne fanno uso sarebbero costrette e dipendere da aziende produttrici straniere.
La decisione dell’Ilva dipende dagli arresti?
Guardi, so soltanto che l’Ilva sostiene che la decisione è stata provocata dal sequestro dei beni prodotti dalle attività ancora in funzione. Secondo l’azienda, non potendo più commercializzare i propri beni per volontà della magistratura, non c’è alternativa alla chiusura.
E’ così?
Di per sé, il ragionamento ha una sua logica. La situazione, tuttavia, va analizzata nel suo insieme. Non si può ridurre ai recenti episodi.
Ci spieghi.
L’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) contiene una serie di prescrizioni che, se applicate, renderebbero l’Ilva uno degli impianti più moderni ed efficienti sotto il profilo delle tecnologie e dell’impatto ambientale. Ma, a oggi, l’azienda ha preferito disattenderla completamente; continuando a operare secondo strategie e tatticismi volti, più che altro, a prevalere sul piano legale piuttosto che a riattivare a pieno regime la produzione.
Adempiere alle prescrizioni avrebbe consentito di preservare la produzione?
In parte, sicuramente. Essa, infatti, prevede di abbassare le emissioni inquinanti e, contemporaneamente, di continuare e produrre e vendere, seppur in maniera limitata. Tuttavia, dopo che per mesi l’azienda si è ostinata a ignorarla, è arrivata la magistratura. Che, con il sequestro dei beni, ha sancito l’impossibilità di continuare qualsivoglia attività industriale e commerciale.
Perché l’azienda, finora, ha ignorato l’Aia?
Perché dovrebbe compiere dei massicci investimenti che, invece, non sono richiesti in altri paesi in cui ha degli stabilimenti, e dove i vincoli ambientali sono estremamente ridotti.
Come ne uscirete?
Abbiamo chiesto – minacciando, in caso di rifiuto, una grande manifestazione, a Roma – un incontro urgente con il presidente del Consiglio, Mario Monti. Ieri sera, attorno alle 20, ci è arrivata una chiamata da Palazzo Chigi. Siamo stati convocati giovedì alle 15.
Crede che l’incontro possa sbloccare la situazione?
E’ in atto uno scontro istituzionale. Nessun altro potrebbe metter mano a tale circostanza, strozzata tra le imposizioni della magistratura e le inadempienze dell’azienda. Crediamo che per le responsabilità di troppi soggetti, rischino di farne le spese i lavoratori. Solamente il governo, a questo punto, può venirne a capo.
(Paolo Nessi)
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