EXPORT/ Preti (Bocconi): ecco i nuovi “salvagente” per le imprese italiane
Per PAOLO PRETI, i prodotti del made in Italy sono venduti nei mercati la cui economia tira di più, in quanto sono più costosi della media, ma sono famosi nel mondo per la loro qualità

Tra gennaio e maggio 2012 le esportazioni italiane hanno superato le importazioni di 25,5 miliardi di euro. Un dato al netto dell’acquisto di gas e petrolio, ma che colloca il nostro Paese tra i migliori in Europa per il rapporto tra export e import. Come rivela l’Istat, calcolando anche l’acquisto di combustibili fossili, nei primi cinque mesi del 2012 l’Italia ha avuto un passivo di 2,6 miliardi di euro. Un dato di sei volte migliore allo stesso periodo del 2011, quando il passivo era stato pari a 18 miliardi di euro. Per Paolo Preti, direttore del master Piccole imprese della Sda Bocconi, «i prodotti del made in Italy sono venduti soprattutto nei mercati la cui economia tira di più, in quanto sono normalmente più costosi della media, ma sono famosi in tutto il mondo per la loro qualità».
Di che cosa è segno il fatto che la bilancia commerciale italiana è tornata in attivo?
Rispetto all’export, la capacità delle imprese italiane di stare sui mercati internazionali nonostante le piccole dimensioni è nota da tempo. A me non stupisce quindi che questo dato sia positivo. La tendenza generale è che da dopo l’inizio della crisi la potenzialità di esportare della nostra economia, e in particolare delle piccole e medie imprese, è assolutamente elevata. Questo è quindi un trend strutturale, le nostre imprese hanno capito da tempo che il mercato interno è fermo e quindi hanno espresso volumi di esportazioni che contrastano con il fatto che le attese nei loro confronti fossero ampiamente negative.
Il dato sull’export può segnare l’inizio dell’uscita dalla crisi?
Questa non è l’uscita dalla crisi, ma un valido contributo per stare sui mercati. E’ chiaro che se le nostre imprese in questo momento non fossero capaci di esportare, sarebbero in maggiori difficoltà rispetto a quelle in cui comunque si trovano. C’è una capacità strutturale di esportare, ma questo non significa che la crisi sia finita.
La novità è però che mentre l’export italiano verso la Cina e i Paesi europei diminuisce, quello verso i Paesi petroliferi aumenta del 37% e quello verso gli Stati Uniti cresce del 40,4% …
E’ un segno del fatto che abbiamo dei bravi imprenditori, in grado di produrre merci riconosciute in tutto il mondo per il loro valore nei vari settori, e che sono capaci di venderle dove l’economia va di volta in volta meglio. Il made in Italy realizza prodotti realmente “worldwide”, cioè capaci di stare nel mondo intero. Si rivolgono a mercati in grado di saperli apprezzare, e in genere sono acquistati da quelle economie che sono in buona salute. In questo momento quindi vanno meno bene in Cina e in Europa, anche se da sempre la Germania compra molti dei nostri prodotti. Il loro successo maggiore al contrario è nei Paesi petroliferi e negli Stati Uniti, che da qualche mese hanno una ripresa in corso.
Più in generale che cosa emerge da questa tendenza?
Il dato di fondo è che l’Italia ha dei bravi imprenditori capaci di produrre merci di qualità. In secondo luogo siamo riconosciuti nel mondo per questa nostra capacità, nessuno guarda all’Italia per il suo settore pubblico, ma tutti ammirano il fatto che la nostra industria privata è in grado di mettere a punto dei buoni prodotti. Appena inoltre l’economia di un Paese funziona bene, tende ad approvvigionarsi di made in Italy, che è più costoso della media e non può quindi essere acquistato da chiunque.
Allora perché, come rivela un rapporto del gruppo Cribis, in Italia falliscono 35 imprese al giorno?
Il rapporto Unioncamere presentato 20 giorni fa a Roma rivela che nel 2011 sono di più le imprese che nascono rispetto a quelle che muoiono. E’ un dato che potremmo interpretare in molti modi differenti, per esempio con il fatto che una persona che perde il lavoro apre un’azienda e quindi è una sorta di auto-occupazione. Ma sempre secondo Unioncamere sono di più le aziende in forma di Srl, cioè di società di capitali, che di Snc, cioè di società di persone. Questo lascia intendere che il fenomeno dell’auto-occupazione magari esiste, ma è minoritario rispetto al panorama imprenditoriale italiano. In secondo luogo, a fare la differenza è come sempre la persona. E’ un imprenditore non chi va dal notaio a depositare l’atto costitutivo di una società, ma chi è in grado di stare sul mercato.
(Pietro Vernizzi)
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