IL CASO/ Bertone: c’è un “disegno” dietro al crollo di Eni, Saipem e Mps

- Ugo Bertone

Dopo lo scandalo del Monte dei Paschi, il tonfo di Saipem a seguito di un profit warning, ora Eni finisce nel turbine delle inchieste. Cosa sta accadendo? L’analisi di UGO BERTONE

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Non c’è due senza tre. Dopo la mazzata in arrivo dal Monte Paschi e lo “strano” tonfo di Saipem a seguito di un profit warning preceduto dalle vendite di un grande fondo internazionale (solo preveggenza?) è la volta dell’Eni. Anche stavolta la causa scatenante è un contratto Saipem in odore di mazzette versate a un portaborse di un ministro di Algeri.

Vicende come questa, in realtà sono quasi all’ordine del giorno nella storia degli affari “oil”, come possono testimoniare le inchieste su Total, Bp o altri colossi dell’energia a ogni latitudine. Ma anche nei casi più clamorosi, puniti con la maggior severità possibile dagli inquirenti di Washington, Londra e Berlino, non si ha memoria di irruzione delle forze dell’ordine nell’abitazione privata del Presidente della capogruppo. Tanto meno di interventi annunciati a Borsa aperta, con l’ovvio risultato di trascinare al ribasso l’intero listino, come era facilmente prevedibile visto il peso del cane a sei zampe nella piccola, asfittica provincia che è ormai Piazza Affari. Senza dimenticare che Paolo Scaroni, l’Amministratore delegato oggetto del blitz, è pure il vicepresidente del London Stock Exchange che controlla la Borsa italiana.

Insomma, un episodio da manuale dell’ignobile arte di farsi del male da soli in cui gli italiani eccellono. Ovvero, tanto per pensar male (cosa che nel Bel Paese il più delle volte non è sbagliato), corre il sospetto che si dia spazio a inchieste dalla forte risonanza mediatica per sovrastare con nuovi rumori altri scandali, vedi Mps. Ma è andata così? Davvero si spara contro un manager considerato vicino a Silvio Berlusconi per dirottare l’interesse dal Monte Paschi? Oppure, a suon di inseguire dietrologie, si è persa del tutto la bussola di ciò che è non è lecito? Meglio desistere da una domanda così impegnativa. Ma resta il fatto che la cronaca ancora una volta ha superato la fantasia e ha reso inutili i lavori degli esperti in politica e in finanza.

Per settimane i desk del reddito fisso delle grandi case di investimento hanno spiegato ai clienti che, comunque andassero le elezioni italiane, il tragitto del Paese era comunque già tracciato. Per questo motivo lo spread ha avuto oscillazioni modeste, nonostante le robuste “sparate” di Berlusconi o gli affondo dell’antipolitica grillina o tanto meno dei vendoliani. Ma quel che non ha potuto la politica è riuscito al mondo della finanza. Difficile immaginare una serie di infortuni (diciamo così) più gravi ed emblematici concentrati nel giro di poche settimane. Ovvero:

1) Il caso Monte Paschi non è, si è ripetuto a ogni livello, il sintomo di una malattia generale del sistema del credito di casa nostra. Argomento senz’altro fondato, visto che il sovrapprezzo pagato per Antonveneta è senz’altro un unicum. Così come è, per nostra fortuna, un’eccezione la straordinaria imperizia con cui la Fondazione Monte Paschi ha messo a rischio mezzo millennio di storia per ignorare un concetto elementare della gestione dl risparmio: “Non mettere tutte le uova in un solo paniere”. Ma il malvezzo di utilizzare la “finanza ombra” (in questo caso Lutifin) per generare forti commissioni a vantaggio di manager bancari è davvero un’esclusiva di Mps? Come mai Lutifin, piccola commissionaria ticinese, in un solo anno ha intermediato 34 miliardi di titoli per conto di una decina di banche nostrane?

2) Mps, in realtà, non ha avuto un grosso impatto internazionale per una ragione semplice: le banche altrui si sono comportate in questi anni assai peggio. Per questo, nell’ambito della grande finanza, ha fatto assai più scalpore la girandola di comunicati di segno inverso su Saipem. Prima un brutale taglio delle previsioni, capace di far crollare non solo il titolo ma l’intero comparto europeo degli oil equipment. Poi, sorpresa, ieri si scopre che in un mese sono stati chiusi contratti per 3,3 miliardi. Nel mezzo, naturalmente, la vendita del 2% del capitale poche ore prima del profit warning. Chissà, presto scopriremo se chi ha venduto a piene mani si è ricoperto ai minimi raddoppiando i proventi dell’affare del secolo (per lui). Per molto meno in Usa si finisce in galera per anni. Ma dalle nostre parti i reati contro la Borsa non fanno notizia. Come è giusto che sia, visto che i risparmiatori sono già scappati.

3) Qualcuno, però, non ce l’ha fatta. Tra gli scandali minori di questo inverno terribile non si può non citare la parabola di Seat Pagine Gialle, finita in concordato preventivo dopo aver bruciato l’intero capitale. Non si parla di un’azienda decotta, bensì di una che fino al 2012 ha vantato un margine industriale di alcune centinaia di milioni, ma che è stata spremuta e ri-spremuta più volte nell’interesse dei private equity che si sono passati più volte il cerino dopo aver generato profitti mostruosi per sé e per i protagonisti della stagione dell’euforia, quando la possibilità di creare un mercato dei capitali all’altezza di un Paese avanzato è stata sacrificata sull’altare dell’interesse di pochi. E così un’azienda in attivo ha del tutto bruciato i risparmi di centinaia di migliaia di risparmiatori.

4) Ci sarà modo, presto, per commentare a fondo i rilievi emersi nell’indagine del commissario di Fondiaria-Sai. Al di là dei quattrini finiti nelle tasche della famiglia Ligresti e nella biada dei purosangue cari all’amazzone Jonella, sarà interessante seguire il fiume di denaro affluito ai vari periti, sindaci, consulenti ed esperti a vario titolo che si sono accaniti attorno al patrimonio del secondo gruppo assicurativo italiano, nel disinteresse delle autorità di controllo.

5) A tutto questo si aggiunge ora il capitolo Eni-Saipem- Algeria. Ben venga la giustizia, ma sarebbe tutto assai più credibile se, guarda la combinazione, l’inchiesta avesse preso consistenza tra qualche settimana, a elezioni archiviate. O si fosse osservato il riserbo dovuto, quantomeno per rispetto all’interesse nazionale ricordando che “right or wrong, it’s my country”. Ma forse è chiedere troppo in una Repubblica votata al particolare, come capita sempre nei momenti bui del Bel Paese.





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