Cala la produzione industriale a giugno: -1,1% rispetto a maggio e -0,3% rispetto a un anno fa. Lo ha reso noto l’Istat ieri, segnalando che in ogni caso il primo semestre dell’anno fa segnare un +0,4% rispetto allo stesso periodo del 2014. Questa battuta d’arresto non sorprende Francesco Forte, economista ed ex ministro delle Finanze: «Mi aspettavo questo calo, perché la disoccupazione era aumentata. Poi ho visto che in linea generale la politica economica di questo Governo è del tutto sbagliata. In particolare, la tanto decantata riforma del mercato del lavoro è dannosa».
Perché?
Perché voler “imporre” una sorta di contratto unico, il tempo indeterminato a tutele crescenti, irrigidisce il sistema del mercato del lavoro. Gli aggravi fiscali sugli altri contratti, la guerra alle Partite Iva, la filosofia del non consentire i contratti flessibili, portano rigidità. Ciò riduce l’occupazione, ma soprattutto impedisce di avere un meccanismo flessibile ai fini della produttività.
C’è però un sorprendente boom della produzione di autoveicoli: +44,2% nel primo semestre 2015 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
Non è assolutamente un caso, dato che si tratta dell’unica industria dove ci sono i contratti aziendali. In generale, la produzione industriale è alimentata solo dalla domanda estera e non da quella interna. Siamo in una situazione in cui, nonostante la flessibilità avuta dall’Europa, abbiamo aumentato il deficit per cercare di fare politiche espansive che non hanno funzionato.
E se, come probabile, stavolta la flessibilità venisse usata per un taglio delle tasse?
Basta che non sia dirigistico e populistico come quelli fin qui fatti. Gli 80 euro in busta paga valevano quasi un punto di Pil. Se si fosse usata tale somma per ridurre la tassazione marginale delle imprese, l’Irap poteva essere dimezzata. Bisogna quindi abbattere le tasse dove ci può essere sviluppo della convenienza a investire e lavorare: le aliquote per i premi di produttività, quelle marginali sul reddito d’impresa oppure le imposte di registro.
Eliminare le imposte sulla prima casa sarebbe in ogni caso desiderabile, non trova?
Sì, certo, ma bisogna prestare attenzione al fatto che non ci siano aumenti fiscali: il rischio concreto è che i comuni, di fronte al fatto che gli si toglie l’imposta sulla prima casa, si rifacciano in altro modo, come già successo con l’eliminazione dell’Imu ai tempi di Letta. Io ritengo che gli sgravi fiscali non vadano dispersi qua e là, ma concentrati.
In che modo?
Bisognerebbe “devolvere” il gettito a cui si vuole rinunciare al dimezzamento delle imposte sull’edilizia, oppure destinarlo interamente alla riduzione dell’Irap o dell’Ires. Diversamente è difficile ottenere un effetto di stimolo e di semplificazione del sistema tributario.
Nel frattempo aumenta il numero degli italiani in vacanza: +8,6% in un anno, secondo Federalberghi. Non è un segnale di ripresa?
Il numero degli italiani che vanno in vacanza non è necessariamente collegato alla spesa degli italiani per le vacanze. Certo, una piccola ripresa dei consumi c’è, ma la gente si organizza per andare in vacanza senza spendere di più, anche perché in questo settore, vista la concorrenza internazionale, nel nostro Paese c’è stata una diminuzione dei prezzi.
Qual è il segnale cui dovremo guardare per capire di essere realmente in ripresa?
Quando avremo una crescita del volume di investimenti, anche solo nel settore privato, che sia in percentuale sul Pil paragonabile a quella del passato. Attualmente gli investimenti sono in declino e questo vuol dire che non siamo in ripresa. Parlo anche degli investimenti finanziari: non dimentichiamo che il Qe ha portato i tassi di interesse al minimo, ma in Italia i mutui sono ancora i più cari d’Europa.
Attualmente quanto dobbiamo recuperare sul fronte degli investimenti?
In percentuale sul Pil siamo sotto del 2%. Ma bisogna considerare che i nuovi investimenti rispetto agli ammortamenti non sono di solito una percentuale molto elevata. Quindi 2% vuol dire che in percentuale sugli investimenti, non sul Pil, siamo sotto di un 10%. Nel settore pubblico poi siamo sotto del 30%, perché siamo passati dal 3% al 2% del Pil. Gli investimenti nelle infrastrutture sono crollati e questo è un segnale molto grave.
Perché?
Si tratta di investimenti a lungo termine che si dovrebbero fare in due circostanze: quando c’è una buona prospettiva di sviluppo di lungo periodo e quando il tasso di interesse è basso. Noi abbiamo un tasso di interesse basso, ma evidentemente la prospettiva di lungo termine non c’è. Basta vedere, per esempio, i piani che non partono sulla banda larga e sull’Alta velocità.
(Lorenzo Torrisi)