ILVA DI TARANTO/ Il salvataggio impossibile senza Cdp

- Sergio Luciano

Sono arrivate 29 manifestazioni di interesse per l'Ilva di Taranto. Eppure, spiega SERGIO LUCIANO, sembra che l'acciaieria italiana valga più da chiusa che da viva

Ilva_Taranto_BluR439 Infophoto

“Nel novembre del 2014 Arcelor Mittal, il colosso anglo-indiano dell’acciaio, aveva detto al governo italiano che era interessato a comprare l’Ilva. Non se ne volle fare nulla. Da allora è cambiato tutto. Oggi l’Ilva secondo molti vale più da chiusa che da viva”: è cinico e forse esagera, ma il vecchio industriale siderurgico che commenta con il Sussidiario le ben 29 manifestazioni d’interesse piovute mercoledì sulle scrivanie dei commissari straordinari non è lontano dal vero, purtroppo. I 29 soggetti che si sono detti interessati all’Ilva – e che sono in corso di “scrematura” preliminare da parte dei commissari stessi – non si sono presi alcun impegno. Hanno solo deciso di dare un’occhiata e marcare stretto i concorrenti. Da qui a mettere mano alla tasca, corrono oceani di “se” e continenti di “forse”.

Sono stati buttati al vento quindici lunghi mesi. Accarezzando la chimera del rientro in Italia di quei 1200 milioni della famiglia Riva, sequestrati dalla magistratura italiana con l’accusa di evasione fiscale (mentre il conteggio dei danni ambientali è ancora in itinere) ma custoditi all’estero; e aspettando che il “demiurgo” individuato dal premier Matteo Renzi per tracciare le strategie della “nuova Ilva”, cioè Andrea Guerra, trovasse la pietra filosofale per risolvere il problema. Non ha trovato nulla di nulla.

Adesso, finalmente, il governo italiano ha capito che deve affrontare un problema drammatico. Il gruppo rischia di saltare. Quest’anno perderà altri 400-500 milioni di euro. È la più grande acciaieria d’Europa e produce per meno della metà del suo potenziale. Ha 12 mila dipendenti, su 18 milioni e mezzo di metri quadrati di area impegnata.

È stata fermata perché inquinava. Farla ripartire in condizioni di sicurezza ecologica e lavorativa costerebbe appunto quei 1200 milioni circa che lo Stato sperava di riprendere. Senza bonifiche – perché ovviamente, come risulta dagli atti giudiziari, nel sottosuolo dello stabilimento c’è di tutto -, senza manutenzione straordinaria degli impianti più sospetti o da più tempo chiusi, chiunque tocchi un bullone rischia. Gli acciaieri italiani seri, compresi i vari Marcegaglia, Arvedi e Eusider che hanno mandato la loro brava manifestazione d’interesse ci penserebbero diecimila volte prima di arrischiare i loro soldi per farlo: cioè, per farlo da soli.

Chi potrà garantire loro contro i rischi giudiziari legati a incidenti, ecologici o lavorativi, dovuto ai problemi di ieri non ben risolti? Ci sono aree sequestrate, chi e con quali garanzie le dissequestrerà? Ci sono pendenze giudiziarie di ogni sorta. “E l’impianto? È ipotecato, per metà obsoleto, infestato dagli inquinanti, è un disastro”, commenta ancora la fonte anonima. E quindi?

Dietro l’enorme ipocrisia – e inconsapevolezza – del governo, ci sarebbe una sola strada per riportare l’Ilva alla forza industriale che conserva sotto la ruggine: soldi, soldi e soldi, tutti pubblici, gestiti bene, anzi benissimo, in barba alle prevedibili bordate europee, con cinque anni di tempo per azzerare il passato grazie alle regole protettive di una legge speciale.

Il soggetto teoricamente deputato sarebbe uno dei “magnifici 29” che ha avanzato la manifestazione d’interesse, cioè la Cassa Depositi e Prestiti, che però finora ha sempre detto di volersi limitare semmai a prendere una partecipazione di minoranza. Già: accanto a quale socio di maggioranza, Paperon de’ Paperoni?

Intanto, fino al 31 marzo dovrà aver luogo l’esame dei dati e degli impianti. Tutta questa fase sarà ancora “senza impegno”. Poi, entro qualche altra settimana, le offerte vere – si fa per dire, visto che è altamente improbabile che si concretizzino prima di scelte politiche precise del governo – e infine la scelta da parte dei commissari, e quindi comunque del governo.

In tutto questo, il governatore della Puglia Michele Emiliano – cui non manca certo il sangue nelle vene – ha espresso chiaramente il suo dissenso da Renzi sul caso Ilva ma non solo. Ha proposto di far attraccare il gasdotto Tap nella zona di Brindisi per alimentare con quel gas sia l’Ilva che la centrale elettrica dell’Enel di Cerano, la seconda più grande d’Italia, oggi a carbone (inquinantissima). Un’idea coraggiosa, non senza complicazioni, ma ambizione e per certi versi geniale: “Ma Renzi non mi ha neanche risposto”, ha detto Emiliano. Auguri, Ilva.







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