«L’economia europea non riparte perché con il tipo di sistema che abbiamo costruito si preferiscono fare utili a breve cercando attività non rischiose piuttosto che investire sul futuro». È il commento di Leonardo Becchetti, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma. Martedì sono usciti due dati positivi riferiti a marzo. Da un lato l’indice Pmi dell’Eurozona cresce a 53,7 dal 53 di febbraio, superando le aspettative che prevedevano un dato mensile invariato. Dall’altra l’Ifo tedesco, cioè il dato che registra lo stato di salute di 7mila imprese commerciali, è salito a 106,7 punti dai 105,7 di febbraio. Nel rapporto 2016 della Corte dei Conti si sottolinea però che non tutto sta procedendo per il meglio: “Da una parte l’economia italiana sembra uscita dalla fase recessiva; dall’altra la ripresa, ancora debole, può trovare difficoltà a consolidarsi, anche per la sua caratteristica di asincronia ciclica rispetto ai principali partner”.
Professore, anche martedì sono stati pubblicati dei dati contrastanti. Nel corso del 2016 continuerà l’altalena cui abbiamo assistito nei primi mesi dell’anno?
Purtroppo il dato di fatto è che gli investimenti non si stanno riprendendo come dovrebbero. Quello che manca in Italia e in Europa è la politica fiscale. La Bce sta facendo tutto il possibile in termini di politica monetaria, in quanto ha abbassato i tassi, ha inondato il mercato di liquidità e adesso sta anche acquistando i bond delle aziende.
Perché le imprese non fanno investimenti?
Perché con il tipo di sistema che abbiamo costruito si preferiscono fare utili a breve cercando attività non rischiose piuttosto che investire sul futuro. Questo lo fanno sia le banche, che preferiscono il trading sui titoli anziché erogare credito alle imprese, sia le imprese stesse che preferiscono usare i loro fondi per fare più dividendi oppure riacquistare azioni anziché investire.
Qual è la conseguenza di questo stato di cose?
La conseguenza è che il grande assente oggi è una forte domanda di investimenti, ed è un peccato perché con i tassi così bassi ci potrebbero essere tantissimi investimenti che rendano più del costo del denaro. In questo senso ci vorrebbe anche uno stimolo pubblico. Il piano Juncker è rimasto monco e ci vuole una politica di incentivi più forte.
Anche le grandi imprese hanno smesso di investire?
Questa tendenza a guardare al profitto a breve è presente un po’ ovunque, e quindi anche nelle grandi imprese. Anche se le aziende che esportano sui mercati esteri vivono in ambienti più dinamici e di fatto, siccome la concorrenza è forte, per rimanere sul mercato devono investire. Il problema però è generale e riguarda l’intero settore economico. Ovviamente dipende dal contesto internazionale, cioè dal fatto che c’è deflazione e quindi c’è il rischio di una domanda stagnante. Con la deflazione infatti gli acquirenti aspettano ad acquistare perché sperano che i prezzi scendano.
Quali effetti produce il fatto che oggi ci troviamo in un mondo economico dove esistono sempre meno barriere?
Quello che conta è anche dove rientra la ricchezza investita, anche se non sempre gli effetti di quest’Europa così aperta sono positivi. Abbiamo visto di recente le cause per evasione fiscale intentate dal governo italiano contro tre aziende che avevano la sede in Irlanda. Oggi c’è quindi anche un grosso problema legato all’elusione fiscale.
Da dove nasce questo problema?
Il vero problema è che le aziende cercano di mettere la loro sede fiscale in Paesi dove si pagano meno tasse. Questo produce delle distorsioni anche sulla contabilità e sul Pil. Nel 2015 il Pil dell’Irlanda ha registrato il +7,5%, che in realtà è un +4% se non consideriamo l’elusione fiscale. Fatto sta che nonostante questo risultato il governo uscente è stato bocciato alle urne. Come abbiamo spiegato la settimana scorsa quando abbiamo presentato il Rapporto Mondiale sulla Felicità, il vero problema è che noi dobbiamo imparare a usare indicatori diversi. Se vogliamo misurare il benessere economico dei cittadini non dobbiamo guardare soltanto al Pil, ma anche al reddito disponibile.
Martedì sono stati realizzati dei nuovi attentati a Bruxelles. Quanto può pesare sulle prospettive economiche l’allarme terrorismo?
Gli effetti economici degli attentati sono molto a breve termine. Dopo il 13 novembre, per un certo tempo c’è stato un rallentamento e una tendenza della gente a viaggiare di meno, ma dopo poco questo effetto scompare. D’altra parte dobbiamo abituarci a vivere in un ambiente dove sono presenti dei pericoli, mentre sembra che si voglia ignorare che viviamo in un contesto che è fatto di rischi. Questi ultimi sono in ogni caso sovrastimati, perché la probabilità di essere vittima di un attentato terroristico è assolutamente risibile rispetto magari ad altri rischi che corriamo durante la vita.
(Pietro Vernizzi)