Se si pensa a quali furono le forze storiche fondamentali che diedero vita al cosiddetto “miracolo economico” italiano del secondo dopoguerra, non possiamo non ricordare il fatto che in Italia la Seconda guerra mondiale fu combattuta laddove non esisteva di fatto un patrimonio industriale, ossia nel sud del Paese, mentre invece in Europa tanto la Francia quanto la Germania ebbero il loro complesso produttivo in larga parte distrutto. Di qui la possibilità di trovare un mercato più evoluto per le grandi e medie e piccole imprese dell’Italia settentrionale, che ebbero così un’eccezionale occasione di trovare domanda effettiva a fronte di una capacità produttiva intatta, grazie sia all’eroismo degli operai partigiani combattenti che difesero le fabbriche, sia per l’accordo tra le alte cuspidi del capitalismo italiano e le forze angloamericane che risparmiarono durante i bombardamenti le possenti risorse industriali del nord. Un patto che configura il rapporto nazione e internazionalizzazione sia dell’Italia nella Guerra fredda, sia oltre la medesima, come documentano le vicende odierne del nostro capitalismo, dipendente tanto sul suolo nazionale quanto in Medio Oriente, dove gli interessi della nazione sono messi a repentaglio.
Il secondo macro-impulso alla crescita fu lo Stato imprenditore sotto le specie dell’Iri e con la creazione dell’Eni, con la meteora luminosa di Enrico Mattei ispirato da mentori come Ezio Vanoni e Marcello Boldrini, grazie al quale l’Italia poté disporre delle essenziali risorse energetiche sfidando l’oligopolio internazionale petrolifero e gasiero con risultati straordinari. La forza del monopolio privato non fu indifferente, con un complesso di imprese raccolte attorno alla Fiat.
Questo straordinario intreccio di forze diede all’Italia il primato mondiale dei tassi di superamento dell’arretratezza, cosicché lo stesso Giappone fu solo secondo nell’arena internazionale. La presenza di imprese uniche a livello mondiale per fondamenti morali e religiosi ed efficacia tecnica e imprenditoriale, come l’Olivetti, propose il secondo dopoguerra italiano agli occhi della comunità scientifica internazionale come modello insuperato di crescita.
Gli ostacoli emersero tuttavia precocemente. E non furono solo di carattere internazionale come resero evidenti l’assassinio di Mattei per mano dell’estrema destra colonialista francese, la distruzione via giudiziaria del nostro precoce procedere nel nucleare o gli ostacoli frapposti allo svilupparsi di una leadership nell’Ict che, dopo la morte di Adriano, in Olivetti poterono meglio dispiegarsi. Gli ostacoli alla continuità della crescita venivano dalla morfologia medesima del capitalismo italiano e dalla sua specifica inserzione nel giuoco di potenza mondiale, mediterraneo ed europeo in primis.
A cominciare dal fronte monetario. Ancora in regime di sovranità monetaria, prima dell’euro, gli ostacoli erano già evidenti. Mentre fu virtuosa sino agli anni Ottanta del Novecento l’intermediazione finanziaria, equilibrata sul fronte delle banche territoriali cooperative e miste e delle forti banche di interesse nazionale. Ma essa, sin dai primi anni dopo la Seconda guerra mondiale, nascondeva nella stessa Iri il segno delle future strozzature alla crescita. L’oligopolio, in questo caso, diversamente da quanto accadeva sul fronte industriale, si rivelava dannoso e distorsivo, a svantaggio delle piccole imprese e a vantaggio dei grandi gruppi e delle grandi famiglie.
Ancora oggi, paradossalmente ma non troppo, si tace il dato indubitabile che larga parte dei non performing loans bancari non provengono dalle piccole e medie imprese, ma dalla dissennata politica di credito e di convertendo esercitata dalle banche – create dalla controrivoluzione liberista degli anni Ottanta e Novanta del Novecento – nei confronti dei grandi gruppi italiani, secondo regole tipiche del capitalismo di relazione, che mentre era ed è rifiutato in teoria, era ed è applicato in pratica nella collusione tra top manager stockoptionisti e ciò che rimaneva e rimane dei grandi imprenditori italiani.
A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta insorsero via via le contraddizioni di una crescita senza sviluppo. La mia tesi è che le tare originarie che allora si disvelarono furono e sono ampliate a dismisura dall’avvento del sistema a cambi fissi a moneta unica con sottrazione della sovranità monetaria. Il tutto accompagnato dalla sottrazione della volontà popolare con il varo per via parlamentare dell’adozione dell’ordo-liberismo teutonico dispiegato e anti-liberale per il solo suo porsi.
È una lunga linea di accumulazione di debolezze nella divisione internazionale del lavoro che giunse al culmine con l’istituzione dell’euro e dei vincoli di bilancio del 3% del deficit e del 60% del debito. Il fatto che ciò sia avvenuto per via parlamentare disvela altresì la perdita di influenza e di discernimento politico di un’intera classe politica ed economica dominante, che da se stessa vincola il suo destino a quello di nazioni a diversa produttività del lavoro e dei fattori sistemico-istituzionali che sovraintendono alla vicenda sociale delle nazioni, con una preannunciata rovina.
La storia ora ritorna con le sue persistenze di lunga durata e i suoi incubi, primo tra tutti l’asimmetria di potere e di influenza che la nazione tedesca ha sempre reso manifesta in Europa per il solo suo porsi. La caduta dell’Urss ha significato, non la fine, ma il nuovo sorgere della storia; e il cambio di passo nel sistema di potenza che sorgerà dall’addio del Regno Unito all’Europa non potrà che esaltare il ritorno sia della storia, sia della fine dell’indebolimento inevitabile che può venirne per l’Italia se i suoi gruppi dominanti e dirigenti in politica e in economia sapranno cogliere le occasioni di rinascita che questa nuova situazione geopolitica apre alla nostra nazione, sia in Europa, sia in Nord Africa, sempre se si saprà ritornare a una politica di equilibrata potenza e non di subalternità come attualmente accade.
La decadenza industriale ed economico-sociale dura da vent’anni e con la sottrazione della sovranità monetaria e della decisione politico-burocratica non potrà che continuare se non si pone mano a eliminare vincoli che non risanano, ma esaltano le debolezze. Una delle quali era ed è l’intreccio perverso tra de-vertebrazione crescente dello Stato (dall’alto e dal basso, avrebbe detto il Maestro Alberto Predieri) e trasformazione dell’ordine giudiziario in potere arbitrario della magistratura. Essa non solo accumula potere autoreferenziale, ma è prona a tutte le sollecitazioni internazionali atte a cacciare l’Italia dal novero delle prime nazioni economiche mondiali, come ha dimostrato indubitabilmente la vicenda degli anni Novanta del Novecento, con un manifesto e vizioso percorso di cosiddetta “lotta alla corruzione” tra nazione e internazionalizzazione. Percorso che oggi trova una sua riedizione in Brasile.
Ma la grande trasformazione reazionaria a cui è stata economicamente, socialmente e culturalmente sottoposta l’Italia in una globalizzazione a cui si è partecipato solo subalternamente è la distruzione del fattore forse più importante della macro crescita del dopoguerra, ossia le privatizzazioni senza liberalizzazione e con distruzione dell’apparato industriale e dei servizi che ne è seguito pressoché in ogni settore strategico del sistema sociale prima che economico, a cominciare dai beni strumentali e dai servizi della neo-industria, per terminare con l’università e il sistema dell’industria culturale, per giungere al culmine nel sistema bancario con l’abrogazione, caso unico al mondo, del credito popolare e cooperativo.
Il modello argentino neo-peronista di privatizzazione distruttiva si è riproposto in Italia con drammatica evidenza. Resistono solo le eccezionali capacità personali di un popolo di eroi italiani e cosmopoliti che continuano a insegnare nelle scuole, a lavorare nelle fabbriche e nelle nuove imprese 4.0 e nei servizi avanzati più sofisticati, prodigandosi nel volontariato, nell’amore verso gli ultimi, mentre avanza e pare tutti e tutto sommergerci la povertà da bassi salari, da deflazione, da crisi demografica (a cui non pone rimedio la disgregata immigrazione) e da disoccupazione di massa strutturale.
Ma gli eroi resistono e camminano con noi. E forse non siamo – brechtianamente – un Paese sfortunato, se pensiamo che l’eroismo è ciò che ci fa prendere per mano, con Peguy, la Speranza, che è una virtù bambina. Per questo – nonostante tutto – camminiamo con Lei.