Per giudicare il sistema economico italiano, e in particolare quello industriale, si fa spesso riferimento al paradosso del calabrone. Quello per cui secondo tutte le leggi della fisica il calabrone non dovrebbe poter volare, date le ali piccole e il corpo più grande, ma, non conoscendo le leggi della fisica, il calabrone vola con grande agilità. E così l’industria viene spesso descritta come incapace di innovare, con imprese troppo piccole per essere competitive, frenata da innumerevoli intralci burocratici e appesantita da un fisco oppressivo e complicato: eppure l’Italia continua a essere il secondo Paese industriale d’Europa, con esportazioni che continuano a crescere soprattutto in valore, con una capacità competitiva che sembra puntualmente contraddire i parametri più classici delle teorie manageriali.
Ma per comprendere i motivi di questi caratteri bisogna andare oltre la semplice osservazione dei paradigmi economici e superare le barriere che considerano il mercato come un’ideologia e la produzione come una tecnica. Perché le imprese non sono elementi che rispondono solamente alle leggi della fisica, ma sono anche portatrici e generatrici di valori perché hanno alla loro base non solo dei calcoli teorici, ma soprattutto l’intelligenza e la volontà dell’imprenditore e dei suoi collaboratori.
Appare allora molto utile trovare una guida nel labirinto delle interpretazioni cercando di andare oltre la banalità dei luoghi comuni. È il caso del libro curato da Luigi Serio, docente di economia e gestione delle imprese all’Università Cattolica: “Medie eccellenti, le imprese italiane nella competizione internazionale” (Ed. Guerini e associati, pagg. 206, euro 21,50). Un libro che sfida le visioni tradizionali ponendo l’accento sulla reale consistenza di un modello italiano allo sviluppo economico che può essere giudicato solo ripartendo dai valori di fondo, valori che non sono solo riconducibili ai pur indispensabili parametri di bilancio. C’è in primo piano infatti un “soggetto-impresa quale garante della qualità, eticità e sostenibilità del valore prodotto, in una significativa riconnessione tra funzioni e senso, efficacia e sostenibilità, custodia e innovazione”.
Un punto di forte riflessione è il valore della media impresa, tradizionalmente considerata troppo piccola per affrontare la competizione e tuttavia abbastanza grande per dover affrontare tutti gli oneri propri e impropri normativi, contrattuali e burocratici. Ma la media impresa italiana non è una realtà astratta, ma si muove all’interno di un sistema che è fatto di relazioni umane, di sinergie produttive, di collaborazioni di filiera come continuano a dimostrare le esperienze dei distretti. Alla base c’è la ricerca di una qualità che non è solo perfezione tecnica, ma che contiene in sé gli elementi della bellezza, della soddisfazione estetica, del coinvolgimento emotivo, della capacità di creare l’idea di unicità. E questo non solo nella moda o nel design, ma anche nei beni tecnologici e strumentali.
Sono cinque i punti di forza che segnano le imprese di successo, punti di forza che possono essere considerati come una declinazione della bellezza come metodo oltre che come finalità dell’impresa: 1) la qualità integrale come perno della strategia e dell’identità; 2) la valorizzazione delle risorse umane; 3) l’internazionalizzazione; 4) la disponibilità a integrarsi in percorsi cooperativi di creazione di valore; 5) la volontà di contribuire allo sviluppo del contesto locale.
In questo percorso spicca anche la capacità della media impresa italiana di essere “un modello inclusivo di creazione della ricchezza”: e infatti “dal 1996 la produttività e il costo del lavoro si sono mossi in modo analogo sicché i lavoratori hanno partecipato pro-quota alla ricchezza prodotta che è stata condivisa e non tesaurizzata dagli shareholders (capitale in primis)”. L’industria, nell’attuale situazione di difficoltà economica, ha quindi fatto la sua parte. Non bisogna dimenticare infatti che il sistema industriale rappresenta solo il 25% del Pil italiano. La responsabilità della stagnazione va allora ricercata soprattutto in quel 75% che è fatto dalla Pubblica amministrazione oltre che da banche, assicurazioni e servizi vari: settori i cui problemi gravano sulle potenzialità di crescita globale dell’economia.