PIL E LAVORO/ La sfida per l’Italia che passa dai termovalorizzatori
C’è stata polemica politica sui termovalorizzatori. Lo smaltimento dei rifiuti è però un tema importante anche per il futuro industriale del Paese

La vicenda dello smaltimento dei rifiuti è un problema serio la cui tensione innescata in seno alla maggioranza di governo ci dice molte cose. Di Maio ha mandato un avvertimento alla Lega – definendo gli inceneritori “roba vintage” – che sostiene la necessità di realizzare nuovi impianti, facendo capire che in futuro i 13 impianti attivi in Lombardia potrebbero essere bloccati. Da qui la risposta del Presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana: “I nostri 13 impianti sono sicuri, chiederemo una norma per non fare più lo smaltimento di altre regioni”. Ci ha pensato poi Salvini a chiudere: “Non torneremo indietro, i rifiuti sono ricchezza ed energia”.
Oggi, ancor più di ieri, dovrebbe essere un mantra nazionale quello di valorizzare gli scarti, riducendo l’impatto sull’ambiente e sulla salute con minor incidenza sulla spesa pubblica. Ovviamente la scelta delicata in questa transizione dovrà essere tra lo sfruttamento di sempre più automatizzati termovalorizzatori e usi strategici dei materiali riciclati su scala industriale.
Per questo i paesi “virtuosi” del nord Europa hanno collocato gli impianti di termovalorizzazione all’ultimo step della “catena del rifiuto” prima dell’arrivo in discarica. In ultima istanza, a livello di riciclo l’industria della waste management italiana necessita di essere rilanciata sulla scia di paesi quali Svezia e Danimarca. A una crescente domanda, anche solo per ragioni pragmatiche necessaria, di prodotti sempre più intelligenti a minor spreco di risorse dovrà far fronte un’industria capace di investire in ricerca e innovazione in visione di lungo periodo.
Proprio a Copenaghen sta per entrare in funzione il nuovo termovalorizzatore: brucia 400 mila tonnellate di rifiuti l’anno e produce calore ed elettricità per decine e decine di migliaia di persone. I filtri trattengono polveri e fumi, dalla ciminiera esce vapore acqueo. È questa l’economia circolare a cui un Paese avanzato e industrializzato come l’Italia non può sottrarsi. Il futuro del secondo Paese manifatturiero d’Europa non può dispiegarsi se viaggiamo col freno a mano tirato su progetti come questo per lo smaltimento dei rifiuti e, per esempio, sulle grandi opere. L’Italia deve poter guardare in modo deciso al futuro. Questo non avviene ed è il motivo per cui il World Economic Forum non ha inserito il nostro Paese tra i primi cento al mondo sulla base della loro capacità di proiettarsi verso un futuro in continuo cambiamento.
L’intelligenza artificiale, l’automazione, la mobilità, l’internet delle cose, la trasformazione digitale sono tutti elementi che nei prossimi decenni sposteranno posti di lavoro e intere economie. Per questo la governance dell’attore pubblico diventa via via decisiva per il futuro di ciascun sistema paese. Purtroppo l’Italia da questo punto di vista non è messa particolarmente bene.
A vincere la graduatoria legata all'”Orientamento del Governo verso il futuro” è Singapore, seguito da Lussemburgo e Stati Uniti. Tra i paesi più “preparati” per il futuro i Paesi del Golfo, Arabia Saudita compresa. La Svizzera è nona a pari merito con la Malaysia. Subito dopo c’è la Finlandia, appaiata dalla sorpresa Rwanda. Germania e Olanda sono al 13° posto. Il Giappone è solo 22°, il Regno Unito 25°.
L’industria 4.0 italiana passa non solo dalla nostra capacità innovativa, ma anche dallo smaltimento dei rifiuti. Troppe esitazioni stanno caratterizzando la nostra economia, cosa che ci costerà un conto molto salato. Dobbiamo riuscire a invertire questa tendenza.
Twitter: @sabella_thinkin
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