Durante l’incontro con il primo ministro italiano Giorgia Meloni il presidente americano Trump ha detto di aspettarsi “al 100 per cento” un accordo commerciale con l’Europa, specificando però che non c’è fretta e evitando di impegnarsi sui tempi. A proposito di possibili accordi commerciali con i partner economici, Trump aveva già avuto modo di esprimere un ottimismo generalizzato, precisando però che in assenza di un accordo questo sarebbe stato imposto dagli Stati Uniti.
Negli stessi minuti in cui Trump e Meloni rispondevano alle domande dei giornalisti Bloomberg dava un’esclusiva: l’Europa starebbe lavorando a un piano per limitare le esportazioni di alcuni prodotti negli Stati Uniti come possibile risposta nel caso le negoziazioni non dovessero produrre un esito soddisfacente. È un’ipotesi che sembra colpire gli Stati Uniti proprio nel punto di massima criticità.
La guerra commerciale, varata ufficialmente meno di tre settimane fa, è già andata molto avanti. Il fronte principale è quello con la Cina, che oggi è nei fatti sottoposta a un embargo per una quota importante delle esportazioni verso l’America. Tutto sembra procedere normalmente, ma intanto il volume dei cargo che viaggiano dalla Cina agli Stati Uniti è crollato e gli Ad di alcune delle più importanti catene americane lasciano intendere sui principali media finanziari che di questo passo si arriverà a vedere gli scaffali vuoti o semi vuoti.
È difficile che in questo contesto gli Stati Uniti vogliano aprire un altro fronte di potenziale instabilità. L’ipotesi di ritorsione europea, il blocco delle esportazioni, andrebbe ad aggravare lo spettro di uno shock sull’offerta. Dichiarare ottimismo sulla buona riuscita di un accordo con l’Unione Europea mettendo le mani avanti sull’assenza di fretta aiuta a calmare il nervosismo che aumenta sotto la superficie, ma risolve molto poco.
È utile anche ricordare quale sia la percezione che, a torto o a ragione, l’America ha dell’Europa. Nel memo prodotto dalla Casa Bianca il giorno successivo all’annuncio dei dazi si poteva leggere che Paesi come la Germania, “che sopprimono il potere d’acquisto dei propri cittadini per sostenere artificialmente la competitività delle proprie esportazioni” fanno politiche assimilabili ai dazi.
Queste politiche includono “sistemi fiscali regressivi” e “la soppressione dei salari rispetto alla produttività”. Ma la “Germania” che gli Usa mettono sul banco degli imputati non è altro che l’Europa con la sua moneta, l’euro, e i trattati europei. È l’euro ad aver permesso alla Germania di evitare una rivalutazione del cambio e di continuare a macinare surplus commerciali che, diversamente, sarebbero stati messi sotto pressione da una rivalutazione del marco.
È positivo che il presidente americano si dichiari ottimista sulla possibilità di un accordo e che, secondo quanto dichiarato da Giorgia Meloni al termine della visita, abbia accettato un invito a Roma in occasione del quale potrà incontrare anche i leader dell’Europa.
L’“Europa” però è qualcosa che è stata pensata per esistere in quella fase di globalizzazione e deflazione che oggi cede il posto al suo contrario. Nessuno si lamentava dei surplus commerciali europei e non importava che l’Europa risparmiasse sulla difesa in un mondo in cui tutti potevano comprare tutto tendenzialmente a basso prezzo. Globalizzazione e deflazione significano tassi bassi e questo ha aiutato una costruzione economica e politica inevitabilmente destinata a incorrere in tensioni interne e crisi finanziarie.
La crisi dei debiti sovrani del 2011 si è risolta in un clima globale di appetito per i rendimenti dei titoli di Stato, con una svalutazione del cambio del 30% che non ha fatto male a nessuno e in un contesto deflattivo. Sono tutte condizioni che oggi non ci sono più.
Appiattirsi sull’Europa è un grande rischio. Se l’Europa e l’euro sono per l’America una struttura che causa il deficit commerciale di Washington, che ostacola le sue imprese e che minaccia di colpire gli Usa esattamente dove e come li colpisce la Cina – con gli scaffali vuoti –, allora essa diventa una sovrastruttura da abbattere.
Nel contesto attuale l’Ue è strutturalmente fragile e rischia di uscire irriconoscibile da questa fase. Irrigidire l’Europa forzando una unità che non c’è, non fa di conseguenza bene a nessuno. A maggior ragione va salutata positivamente la “special relationship” tra il governo italiano e l’America e tra Trump e Giorgia Meloni.
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