Febbraio non è certo il mese delle assunzioni, visto che il grosso dei contratti inizia solitamente a gennaio. Tuttavia, secondo l’indagine Excelsior-Unioncamere, a febbraio 2024 i piani di assunzione delle imprese vedono ancora numeri alti. Ci sono circa 408 mila assunzioni previste dalle imprese per il mese di febbraio e 1,3 milioni quelle per il trimestre febbraio-aprile, +22 mila rispetto a febbraio 2023 (+5,7%) e +114 mila con riferimento all’intero trimestre (+9,5%). Sale al 49,3% la difficoltà di reperimento (+3,1 punti percentuali rispetto a un anno fa).
Se guardiamo alla difficoltà di reperimento le notizie non sono particolarmente buone, siamo ormai vicini al 50% e il dato è in crescita da ormai tre anni. Dal punto di vista settoriale sappiamo che le previsioni per l’industria sono in calo rispetto al 2023 sia se do guarda al mese che al trimestre febbraio-aprile.
A sostenere la crescita sono ancora le costruzioni, ma sono soprattutto i servizi: il commercio prevede 60 mila assunzioni nel mese (+16,6%) e 189 mila nel trimestre (+18,9%), seguito da turismo con 58 mila entrate nel mese (+4,1%) e 246 mila nel trimestre (17,4%) e dai servizi alle persone con 49 mila ingressi nel mese (+18,4%) e 150mila nel trimestre (+18,9%).
Insomma, nel settore dei servizi c’è spazio, ma le difficoltà di reperimento maggiori sono presenti a livelli di professioni tecniche. Con percentuali di difficoltà fra il 66% e il 71% ci sono bene o male i soliti: fonditori, saldatori, lattonieri, calderai, meccanici artigianali, montatori, riparatori, manutentori, fabbri ferrai e addirittura gli operatori della cura estetica.
La capacità di fare con le mani sembra scomparsa dal Paese e risulta difficile, sopra al 50%, trovare addetti ai servizi sanitari o alla ristorazione. Salari bassi, poca etica del lavoro o entrambi?
La pressione sul mercato del lavoro resta elevata. Tuttavia, non ci sono segnali degni di nota sul fronte dei salari: una tale scarsità di competenze e un’ampia disponibilità di posti vacanti dovrebbe spingere verso l’altro la contrattazione e i salari reali individuali. Ma i salari medi orari e il costo del lavoro medio restano al di sotto delle medie europee e di quelle delle medie Ocse. Se c’e’ inflazione non si deve certo alla spinta salariale: gran parte del recupero che gli italiani si attendono nel potere d’acquisto sta nella speranza del calo dell’inflazione e nelle riforme fiscali del Governo, con un mercato che stenta a mobilitare da solo risorse adeguate ad attrarre e formare più persone. Anche la partecipazione al mercato, nonostante la domanda, resta ancorata a tassi di occupazione alti rispetto al passato (circa il 62%), ma bassi rispetto alle media europea.
Già, perché far andare a lavorare più persone richiede più formazione e più servizi per le persone che vanno a lavorare, siano essi servizi di trasporto, di cura familiare o servizi di formazione individuale. In un Paese che invecchia e che già di per sé chiede più assistenza, si fa fatica a sfruttare tutto il volano di domanda interna generato dal lavoro, che se resta poco pagato non basta a comprare i servizi necessari a produrlo.
Ci sarebbero le politiche attive del lavoro, ampiamente finanziate dai fondi comunitari, ma che danno l’impressione di procedere con una disconnessione dai dati della domanda dei datori di lavoro. Spinte dalla necessità di realizzare obiettivi di breve periodo per dimostrare la loro stessa efficacia, i programmi male si adattano a innovare la cura di persone molto deboli, o che vivono sul mercato del lavoro attraverso contratti brevi se non brevissimi alternati a periodi più o meno lunghi di inattività. Chi entra ed esce continuamente dallo stato di occupato fa fatica a programmare qualsiasi percorso di crescita e di stabilizzazione se non è accompagnato per lungo tempo anche dai datori di lavoro. Insomma, non si può fare una politica del lavoro senza imprese che cerchino un coinvolgimento stabile nella formazione e nella crescita delle carriere individuali. Gli esempi virtuosi ci sono, nelle academy aziendali, negli enti bilaterali, nei contratti aziendali e del lavoro temporaneo, e stanno dando frutti dopo lunghi periodi di sperimentazione. Si tratta di esperienze che vanno ampliate e riconosciute come politiche pubbliche di ricollocazione.
Chi pensa che i soldi per la formazione siano sprecati o che debba mettere un altro, continui pure a lamentarsi perché non trova competenze; gli altri continueranno a crescere.
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