Un autobus di turisti ridotto a un relitto carbonizzato, 26 morti, una valle himalayana trasformata in campo di battaglia: l’attentato di Pahalgam – nel Kashmir indiano – ha scatenato la peggiore crisi tra India e Pakistan dal 2019, quando un attacco simile portò i due Paesi sull’orlo di uno scontro nucleare.
Nuova Delhi accusa Islamabad di sostenere Jaish-e-Mohammed, il gruppo jihadista che ha rivendicato l’attacco e il Premier Narendra Modi – in piena campagna elettorale – afferma con fermezza: “Via i pachistani dal Kashmir” ordinando ritorsioni drastiche come l’espulsione di diplomatici, sospensione dei visti, chiusura del confine terrestre e – mossa ancora più pericolosa – il blocco del trattato sulle acque dell’Indo (firmato nel 1960) un atto che, se davvero applicato, soffocherebbe l’agricoltura pakistana, dipendente per il 65% delle risorse idriche da quel fiume.
La risposta di Islamabad non si fa attendere: chiusura dello spazio aereo alle compagnie indiane, espulsione di funzionari, sospensione di tutti gli accordi bilaterali. “Interrompere l’Indo è un atto di guerra” avverte il Premier Shehbaz Sharif, schierando carri armati lungo la linea di controllo – il confine de facto nel Kashmir conteso fin dal 1947. Intanto, i villaggi evacuati bruciano sotto un coprifuoco spettrale, l’ONU invoca “massima moderazione”, mentre l’Iran tenta una fragile mediazione in una regione dove persino i soccorsi umanitari rischiano di trasformarsi in strumenti di propaganda.
India e Pakistan: tra la crisi diplomatica e l’incubo atomico
Quella del Kashmir non è solo una disputa territoriale ma una ferita coloniale mai rimarginata: dal 1947, quando la spartizione britannica creò due Stati nemici – uno a maggioranza indù, l’altro musulmano – la regione è stata teatro di tre guerre (1947, 1965, 1999) e decine di scontri minori. Oggi, il Kashmir è diviso: il 45% sotto controllo di Nuova Delhi, il 35% pakistano, il resto alla Cina, un mosaico esplosivo dove indipendentisti locali, gruppi jihadisti e intelligence straniere si intrecciano pericolosamente.
Gli indiani – con un esercito di 1,4 milioni di soldati – puntano a normalizzare l’annessione del Kashmir revocando il suo status speciale nel 2019; il Pease pakistano, storico alleato dei gruppi separatisti, utilizza la regione come leva per indebolire Nuova Delhi ma il vero pericolo è rappresentato dall’arsenale nucleare con entrambi i Paesi che possiedono oltre 150 testate ciascuno e missili capaci di colpire in appena cinque minuti. “Una corsa verso il baratro” è il monito dell’analista Ayesha Siddiqa: “Modi e Sharif giocano a chi batte più forte il pugno, ma il rischio è un errore di calcolo”.
Intanto, gli effetti economici iniziano a farsi sentire: la Borsa di Mumbai crolla del 3%, mentre il rupee pakistano tocca il minimo storico; i turisti fuggono, i Kashmiri – i veri dimenticati – sopravvivono tra blackout e coprifuoco e nella retorica nazionalista di Modi e Sharif non sembra esserci spazio per le voci di pace ma solo per il rumore assordante dei cannoni.