L’ultimo dato sull’inflazione italiana pubblicato ieri dall’Istat e relativo al mese di dicembre rischia di produrre un grande errore di prospettiva. L’inflazione a dicembre in Italia è stata appena dello 0,6%; è il numero più basso dalla primavera 2021. Dentro il numero “sintetico” si nasconde sia il crollo delle spese per “abitazione, acqua, elettricità e combustibili” (-19,3%), che sconta la base di paragone della crisi energetica 2022, sia l’incremento del 5,9% degli alimentari esattamente in linea con il mese precedente. L’inflazione al netto dei beni energetici rimane al 3,4% dal 3,6% del mese precedente. Concentrandosi sull’inflazione italiana di dicembre, senza allargare lo sguardo, si dovrebbe dare per scontato il percorso di taglio dei tassi su cui il mercato ha ampiamente scommesso negli ultimi due mesi. La realtà, invece, è molto diversa.
La probabilità di un taglio dei tassi della Bce a marzo è crollata al 40% dal 70% di giovedì; solo a dicembre era data al 90%. Il rendimento del decennale italiano è in salita da diversi giorni insieme a quello delle altre principali economie sviluppate. A ulteriore conferma del quadro le banche sono di nuovo in cima alla performance dei listini azionari. È uno scenario in cui i tassi non scendono. I dati sui PMI europei, comunicati giovedì, sono stati migliori delle attese e del mese precedente. Lo scenario di rallentamento economico e dell’inflazione e quindi di taglio dei tassi comincia a vacillare.
La fine della crisi energetica, almeno per ora, le politiche fiscali ultra espansive degli Stati Uniti, con il debito pubblico cresciuto di 1.000 miliardi in un trimestre, gli adeguamenti salariali arrivati sul finale dell’anno aprono una fase diversa da quella immaginata negli ultimi due mesi: recessione lieve e calo dell’inflazione. Con il passare delle settimane il cambio di paradigma potrebbe ricordare quello avvenuto all’inizio del 2022 quando la tesi dell'”inflazione transitoria” collassava definitivamente.
Spostando l’orizzonte più in là sembra emergere una questione su tutte. I rendimenti sulle obbligazioni statali di cui si sono accontentati gli investitori negli ultimi due mesi sono appetibili solo se l’inflazione scende stabilmente al 2%. Se per qualsiasi ragione, irresponsabilità fiscale inclusa, l’inflazione non scende e diventa chiaro che si è aperto un nuovo ciclo, allora gli investitori diventeranno più esigenti in termini di rendimenti. L’ultima puntata della guerra commerciale, la crisi nel Mar Rosso, con l’esplosione dei noli marittimi è tutto fuorché deflattiva. Questa però non è l’eccezione, ma la nuova regola delle catene di fornitura che, volenti o nolenti, si ristrutturano.
La “cura” dei debiti pubblici “esplosi” che si potrebbe immaginare e che passa da rendimenti sulle obbligazioni statali stabilmente sotto l’inflazione è percorribile se gli investitori continuano a essere convinti che l’inflazione scenderà in un orizzonte di tempo sufficientemente vicino. Se questa convinzione viene meno si cercheranno vie alternative rispetto alle obbligazioni statali per preservare i risparmi. Il rialzo del Bitcoin nelle ultime settimane è un sintomo di questa presa di coscienza.
Il problema, quindi, torna nel campo dei Governi che per tenere insieme tutto non possono permettersi l’esplosione della volatilità sulle obbligazioni statali. In questo scenario qualsiasi concorrente ai titoli di debito pubblico è una minaccia.
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