Partiamo con un dato “ex abrupto”: nel 1971, prima della fine della parità aurea con il dollaro, l’oncia d’oro veniva scambiata sui mercati delle banche centrali e degli attori istituzionali a 35 dollari, nel 2020 il 6 agosto si è giunti al massimo di sempre (anche reale) di 2.075 dollari a oncia; in questo periodo di 49 anni esatti l’oro è giunto a un accrescimento di 59,286 volte pari cioè al 5.928,60%. Invece, in questo momento considerando un valore virtuale di 1.775 dollari (dato di inizio settimana scorsa), si ha un incremento pari a 50,714 volte, ovvero al 5.071,4%. Da dove ha origine un incremento di tale portata?
Per quanto possa sembrare strano in prima battuta, questi aumenti derivano dal cumulo dell’inflazione annua di ogni Paese, dalle svalutazioni dei cambi, dalla crescita economica, dagli utilizzi industriali, dal prodotto finito di consumo, dal ruolo di moneta di ultima istanza, dalla funzione di massimo fattore di fronteggiamento dei rischi incerti e nebulosi.
Sembra quasi una presa in giro, in quanto viene fuori che l’oro assolve contemporaneamente ogni funzione possibile; però, non è uno scherzo, in quanto è la verità più profonda e conclamata dell’oro: contemporaneamente nella stessa giornata, nelle stesse ore può e viene scambiato su numerosi mercati tra di loro differenti e contrastanti negli scopi. Ecco perché le analisi tecniche e grafiche sono spurie (almeno per chi scrive): tentativi di descrivere e controllare una realtà troppo complessa e mutevole.
Ma c’è dell’altro, le tante analisi di correlazione inversa col dollaro e col rendimento dei titoli di Stato benchmark (Stati Uniti, Germania, Giappone, ecc.) non sono altro che correlazioni di breve periodo, sono troppi i fattori che già nel medio periodo interrompono queste relazioni. Ad esempio, su molti giornali specializzati si legge sempre una notizia contraddittoria: aumento inflazione (che dovrebbe fare crescere il valore dell’oro), quindi le banche centrali aumentano i tassi di interesse, questa manovra a sua volta toglie moneta dalla circolazione economica e per tale verso meno domanda speculativa sull’oro che viene venduto in eccesso (anche per recuperare moneta), e quindi deprezzamento dei valori dell’oro. Cioè alla fine della giostra, con inflazione in aumento e intervento delle banche centrali, l’oro perde di valore contraddicendo una delle sue funzioni esiziali: difesa contro l’inflazione.
In effetti, si vedono in giro tanti articoli di “geni della finanza” che, dopo i dati di due giorni di mercato, affermano con stentorea sicurezza: l’oro non protegge più dall’inflazione. D’altra parte non si dimentichi il tentativo, i tentativi fuorvianti e deliranti di proporre Bitcoin come sostituto; a questo punto, solo una breve precisazione fuori tema, da riprendere in un apposito intervento: è forte il sospetto che dietro le giravolte e le proposte mainstream di Bitcoin ci siano potenti attori istituzionali che non possono giocare alla luce del sole, ma devono restare nell’ombra, pena il fatto di gravissime ripercussioni sui sistemi finanziari globali.
Non ricorda questo aspetto gli attacchi hacker di ogni tipo e modo verso ogni tipo di istituzione e database? Non sembra strano che la Sec permetta la quotazione di Coinbase, e al tempo stesso il dipartimento fiscale degli Stati Uniti stia lavorando a una stretta regolamentare sulle criptovalute, nonché le ultime parole di responsabili delle agenzie di sicurezza informatiche americane ed europee? Non è strano che si permetta al tempo stesso a un imprenditore del calibro di Elon Musk, di usare di fatto la piattaforma Twitter per manovre speculative e al limite dell’insider trading, e la Sec sembra non vederlo? Ma da ultimo, non è stato strana l’associazione che qualche mese fa il Presidente Fed Powell ha fatto tra oro e Bitcoin? Simili nelle loro funzioni e rischiosi in maniera identica. Molte perplessità suscita quest’ultima affermazione.
Comunque, tornando al percorso più proprio di questo intervento, ci si vuole focalizzare sull’innalzamento dei tassi operato dalle banche centrali per contrastare l’inflazione e per tale verso l’abbattimento dei corsi dell’oro; giova sottolineare che nonché di brevissimo periodo tale causazione è anche radicata in un atteggiamento profondamente keynesiano, a meno che banchieri centrali molto addentro la materia sappiano benissimo i timing brevi di funzionamento di tali manovre.
In altre parole, ricordando l’equazione fondamentale di Irving Fisher e cioè: i (tasso di interesse nominale) = r (tasso di interesse reale) + (inflazione attesa – inflazione effettiva), si vede benissimo come già dopo breve tempo qualsiasi relazione si può verificare; ad esempio, in un contesto di aspettative oramai “nervose”, l’innalzamento dei tassi di sconto fa aumentare direttamente l’inflazione. Invece, i mantra usa e getta sono del tipo: pericolo inflazione, aumento tassi, arresto inflazione; letture semplicistiche e fuorvianti, soprattutto se valide, valide su brevi periodi e sarebbe sempre opportuno dichiararsi keynesiani più o meno vetusti (gioverebbe alla chiarezza).
In realtà, su una cosa a Keynes va data profonda ragione: checché se ne dica, il lungo e il medio periodo rimangono tali, rimangono tali cioè per le aspettative di tutti noi che emotivamente trasformiamo i lunghi periodi in un anno o al massimo due, e quindi finiamo sempre per essere assorbiti nella generalità delle questioni dalle faccende più o meno immediate.
Viene fuori così un’antica e semplice verità certificata non a caso dall’oro: ci vuole talento non ordinario a governare il medio periodo delle cose, e in base ai risultati di tali governi si misura lo spessore dei governanti. Ecco perché il legame tra oro e inflazione è antico e complesso, anzi di più misterioso, quasi misterico.
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