Il 12 ottobre verrà diffuso il dato tendenziale annuo dell’inflazione Usa riferito al mese di settembre. Nel presente intervento si stima un tasso del 4,3% con un intervallo al minimo del 4%; tutto questo dovuto alla permanenza del prezzo del petrolio al barile Wti sempre sopra gli 88,50 dollari e non superiore di fatto a un 95,5 dollari medio come livello massimo, fino alla fine di settembre circa, e in aggiunta già da ora sembra probabile affermare che per ottobre si potrebbe avere un tasso del 4,8-5%; inoltre, nella serata di mercoledì 20 settembre, va ricordato che si sono avute le dichiarazioni del Presidente Fed Powell dopo la riunione del Fomc e le decisioni di politica monetaria.
La Fed non ha incrementato il tasso dei Federal funds, lasciandoli nella forchetta 5,25-5,50%, riservandosi però un’eventuale stretta da 0,25-0,5 punti se le condizioni economiche e finanziarie lo richiederanno; in più per tutto il 2024 alla luce dei dati macroeconomici in possesso della domanda aggregata, relativi a disoccupazione, crescita e incrementi salariali, nonché delle condizioni economiche e finanziarie più generali si considera più probabile una politica monetaria non distensiva. Previsioni meno stringenti sull’inflazione attesa per il 2025 e il 2026, anni in cui al momentum attuale si ipotizza l’allentamento delle politiche dei tassi.
In sostanza, la Fed ha espresso un atteggiamento di attenzione ai dati che volta volta arriveranno sul tavolo, con un moto accennato a non favorevoli scenari; questo vuol dire una Fed attendista più sul peggioramento a breve che sul miglioramento.
Come al solito il guadagno di flessibilità dell’uso degli strumenti monetari si deve contrapporre a una certa perdita di credibilità, in quanto viene ammesso che il momento economico è di una complessità tale da non poter essere gestito con politiche vincolate e preordinate. Ma se si vuole, usando una lettura un pochino più capziosa delle dichiarazioni di Powell, la Fed sottolinea che le cause e i rimedi dell’attuale fenomeno sono al di fuori dei suoi strumenti diretti e ricadono in condizioni esterne dovute, in primo luogo, alla dinamica dei prezzi del petrolio sui mercati internazionali, e, in seconda battuta, agli eccessi di spesa interni condotti in deficit, di cui sono responsabili Casa Bianca e Congresso.
Per quel che riguarda i disavanzi federali, oramai permanenti da svariati anni, lo si sottolinea ancora una volta, che anche se c’è elevatezza del tasso di interesse sui prestiti, l’imprenditore che ha garantita dalla commessa statale in disavanzo la sua produzione, non tratta il tasso di interesse come un freno alla sua iniziativa, bensì come un costo che ammortizza con l’innalzamento dei prezzi finali. Questa pertanto diviene una spirale che alimenta inflazione, perché se anche l’imprenditore in questione non aumentasse l’originario prezzo concordato con lo Stato, lo farà con le commesse sul mercato; oltre poi al fatto che questo meccanismo genera continue pressioni sulle curve dei tassi obbligazionari.
Al contrario, l’assenza permanente di disavanzi federali e pubblici fa avere già scontate e programmate le previsioni dei prezzi, delle spese e delle produzioni concordate tra pubblico e imprenditore, in maniera tale che in relazione al fenomeno inflattivo i tassi di interesse in incremento agiscono negativamente su di esso in maniera molto più uniforme; insomma, la relazione inflazione in crescita e relativo contrasto con un innalzamento dei tassi diviene molto più stabile e lineare, in quanto non ci sono soldi pubblici in disavanzo continuo di spesa che aiutano ad ammortizzare benissimo nuovi fenomeni inflattivi.
Dal lato invece dell’offerta di petrolio ci soffermeremo in questa analisi su due aspetti, uno quantitativo e l’altro qualitativo; dal punto di vista quantitativo, gli Stati Uniti sono esposti al movimento dei prezzi del petrolio sui mercati internazionali, in quanto hanno una domanda lorda di circa 21 milioni di barili giornalieri, a fronte di una produzione propria di circa 11 milioni giornalieri; la differenza negativa di 10 milioni giornalieri di barili è coperta dal Canada per circa 4,5 milioni, dal Messico per circa 1,5 milioni, restando sul piatto 3-4 milioni circa da coprire in altre parti del mondo; si capisce subito che la più importante attualmente è l’area del Golfo persico con a seguire le fantasiose triangolazioni di petrolio russo tramite India, Oman e Turchia.
Questo deficit di 3 milioni di barili giornalieri circa abbiamo detto che è lordo in quanto per la stessa quantità vengono esportati prodotti ottenuti dalla raffinazione del petrolio; in parole povere, gli Usa potrebbero chiudere il deficit sui mercati internazionali non importando la stessa quantità che esportano; solamente che questo rimedio sarebbe peggiore del male, in quanto il valore di costo di 3 milioni barili giornalieri di petrolio in importazione costano all’anno indicativamente 100 miliardi di dollari, mentre l’export di prodotti raffinati della produzione petrolifera per un pari volume fisico vale all’incirca 1.500 miliardi di dollari. Insomma, attuare tale manovra vorrebbe dire esporsi a una caduta diretta del Pil del 7-8%, pertanto non è una strada proponibile.
Agli Stati Uniti resta, però, con l’ausilio di fatto del solo Canada, la sicurezza energetica, nel senso che qualsiasi cosa succedesse sui mercati mondiali avrebbero assicurate le funzioni base per la loro società, in mezzo però a criticità comunque severe devastanti e pericolose del tipo inflazioni molto alte e cadute assai sensibili della produzione.
Veniamo ora a un punto raramente affrontato e cioè la qualità del petrolio americano soprattutto quello prodotto dalle rocce da scisto e che dà il celeberrimo shale gas, di cui sono esportatori netti nel mondo; i problemi sono i seguenti, e cioè che molte produzioni industriali pesanti del tipo acciaio e alluminio hanno necessità dell’energia del petrolio, non essendo a sufficiente resa quella del gas; il petrolio americano inoltre ha una bassa qualità rispetto al petrolio del Medio Oriente e di quello russo, in quanto a parità di volume ha meno ottani di potenza e più impurità. Insomma, per l’avvio di tante produzioni industriali comprese quelle dei macchinari che producono shale gas e petrolio da scisto, gli Usa hanno bisogno e opportunità del petrolio arabo e russo.
Non ci soffermiamo sui trasporti di ogni tipo e categoria, cioè navale aereo terrestre, civile militare agricolo industriale che al 99% circa funzionano a petrolio.
Questo è lo scenario che ha davanti la Fed.
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