Ragionare sull’intelligenza artificiale (IA) a partire da diverse prospettive e competenze scientifiche, riportando esempi ed esperienze in prima persona, è estremamente interessante. Questo è accaduto a Chiavari nel recente convegno annuale dell’associazione di docenti universitari Universitas University dal titolo Artificiale o intelligente? Per una comunità universitaria pensante. Tra i relatori Luca Botturi, Marco Cristoforetti, Sergio Martinoia, Fabio Mercorio, Lucio Rossi, Francesco Follo, Elisa Buzzi, Silvano Cella, Mauro Ceroni. Provo a riassumere, a distanza, alcune delle molte osservazioni emerse.
Il rapporto con la tecnica cambia profondamente colui che ne usufruisce ed è sempre ambivalente. Internet ha risposto a un bisogno di comunicazione che fa parte dell’intima struttura relazionale dell’uomo, ma ha determinato anche conseguenze negative. Si pensi, per esempio, al rischio della polarizzazione in campo politico (si vede solo quello che la macchina ti fa vedere della complessità della realtà) e al fatto che il ricorso alle riunioni on line, anziché liberare più tempo per altre attività, evitando costosi spostamenti, finisce per incentivare queste nuove modalità di comunicazione.
Le relazioni e il dibattito riguardavano sia la natura dell’IA sia alcune sue applicazioni. Va detto che molti preferiscono non usare il termine intelligenza a proposito dell’IA perché pur potendo ottenere grandi risultati, talora assai superiori a quelli umani in alcuni ambiti, essa non funziona come l’intelligenza umana. Le macchine non imparano la realtà come noi. Si è sottolineato che l’intelligenza umana accoglie, legge dentro (intus-legere), ha capacità semantica e non solo sintattica. Così pure le macchine non guardano al futuro, ma predicono sulla base del passato. Esse sono tendenzialmente conservatrici.
Perciò potrebbero ricorrere anche a stereotipi di genere che oggi non apprezziamo, che abbiamo introdotto noi stessi nelle macchine, ma da cui siamo pur sempre capaci di liberarci, essendone consapevoli. Ci piacciono le poesie composte da ChatGPT perché sono come ce le aspettiamo. Rischiamo, così, di pensarci come una macchina e di adagiarci sulla media statistica. Ma noi non siamo esseri solo probabilistici, perché viviamo il senso della possibilità, essendo aperti al futuro. Siamo, perciò, anche esseri responsabili.
E questo perché, a differenza dell’IA, l’intelligenza umana è incarnata in un corpo che tende ad altro ed è in rapporto con altri (cfr. Thomas Fuchs, In Defence of the Human Being, Oxford 2021). Già Tommaso d’Aquino osservava che la persona umana “significa questa carne, queste ossa, questa anima, che sono i princìpi individuanti l’uomo” (Somma teologica I, 29, 4). Anche se alcuni non escludono che l’IA possa un giorno eguagliare o addirittura superare l’intelligenza umana, questa differenza antropologica fa la differenza.
Diversamente dall’IA, l’intelligenza umana è curiosa, capace di gratuità ed è anche un’intelligenza emotiva.
Grazie alla capacità di astrazione che la contraddistingue non avremo mai uguaglianza fra intelligenza umana e IA. Non a caso la macchina senza conducente guidata dall’IA si ferma non soltanto allo STOP, ma anche se scriviamo STOP su un cartello qualunque. In realtà durante il corso del convegno si è più volte sottolineato che, per quanto si cerchi di definirla e di ridurla, l’intelligenza umana in quanto tale resta un mistero.
Per quanto riguarda le applicazioni dell’IA si è osservato che ChatGPT migliora certo la scrittura, ma non la competenza di scrittura. In generale, sul piano didattico si potrebbe distinguere utilmente fra competenza e competenza assistita. ChatGPT, infatti, può migliorare la nostra traduzione, ma non ci fornisce i criteri per controllarla. Così pure il maestro non ti fa il tema come l’IA, ma ti educa a imparare a come farlo. Il rischio altrimenti è quello dell’abbassamento (downgrade) dell’umano, non quello dell’innalzamento (upgrade) dell’intelligenza artificiale. Nella didattica occorre accendere la domanda, sollevare i problemi e non meramente informare. E questo può farlo solo l’uomo.
Anche nelle discipline mediche, nonostante l’indubbia utilità dell’IA nella diagnosi delle malattie, il rischio è quello di trasformare l’uomo in un essere minorato, non riuscendo a valutare il malato nella sua unicità, nella sua personalissima storia che permette di spiegare molto dei suoi sintomi.
In conclusione, oggi è in questione l’immagine umanistica dell’uomo come essere incarnato e in relazione con altri. Solo nel rapporto con una comunità “in carne e ossa” come orizzonte ermeneutico – e l’università, come dice il suo nome (universitas docentium et discentium) dovrebbe cercare di essere proprio questo – si può tener conto di tutti i fattori necessari per affrontare adeguatamente questa sfida centrale e affascinante della contemporaneità. L’IA ci richiama ad essere sempre più noi stessi, più umani e responsabili, a non rinunciare al nostro peculiare ruolo.
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