L’Iran, dopo l’operazione israeliana della scorsa notte avvenuta nei punti nevralgici di Teheran, non è più lo stesso, almeno secondo Beni Sabti, esperto di sicurezza nazionale e profondo conoscitore del Paese, che mette in luce come per la prima volta Israele abbia colpito direttamente i vertici del regime e non soltanto i siti missilistici o le strutture nucleari, ribaltando così una logica militare ormai affermata.
Fino a oggi infatti l’approccio israeliano si era sempre concentrato su obiettivi fisici e strategici – impianti, depositi, centri di ricerca – evitando di intaccare il fulcro del potere decisionale, ma con l’attacco recente qualcosa è cambiato e secondo Sabti, questo spiega il silenzio apparente da parte di Teheran, perché – come dice lui – “non c’è più nessuno che prema i bottoni”, non perché manchi la volontà, ma perché mancano i comandi.
Teheran, in questo momento, sarebbe quindi privo di una guida effettiva, e le immagini di reparti militari dispiegati a difesa della capitale sembrano confermare la paura di un crollo interno, di una possibile rivolta improvvisa che trovi terreno fertile proprio nell’assenza di una leadership; Sabti, che negli ultimi mesi aveva più volte anticipato questa svolta, sostiene che Israele, colpendo in alto, abbia innescato una crisi verticale, una paralisi che blocca l’intera macchina del regime.
In questo contesto, la questione non è solo militare, ma diventa diplomatica, e secondo Sabti ora si apre una finestra di opportunità in cui l’Occidente dovrebbe entrare in campo per impedire che il Paese si riorganizzi o possa riprendere le sue attività nucleari e destabilizzanti nella regione, perché una struttura di potere disarticolata è meno pericolosa, ma anche più imprevedibile.
Aggiunge infine che l’operazione ha un valore simbolico enorme anche all’interno della regione, perché mostra che un colosso come il regime iraniano può essere colpito e fermato, e questo cambia il modo in cui viene percepito anche da chi fino a ieri lo riteneva intoccabile; Israele – spiega Sabti – ha dimostrato di saper colpire con intelligenza politica e con rapidità militare, ma il rischio, ora, è che questo momento venga sprecato o lasciato a metà, per questo insiste sulla necessità di creare un fronte comune internazionale che rafforzi quanto ottenuto.
Iran, la diaspora si mobilita: per Pahlavi il regime è al capolinea, la transizione può iniziare con una guida chiara
L’Iran, nel frattempo, resta osservato speciale non solo dagli analisti, ma anche da chi da anni vive fuori dal Paese e sogna un cambio politico che oggi sembra più vicino: Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo scià e da tempo voce dell’opposizione in esilio, ha dichiarato pubblicamente di essere pronto a farsi avanti per guidare un governo di transizione qualora il regime collassasse, ribadendo che la caduta non deve generare un vuoto pericoloso, ma piuttosto un passaggio ordinato verso una democrazia moderna e inclusiva.
L’obiettivo, ha detto, è evitare l’anarchia e offrire una via d’uscita al popolo iraniano, che da decenni convive con un potere autoritario, repressivo e incapace di garantire diritti, sicurezza e futuro; l’Iran, secondo Behnoud Khashe, attivista iraniano naturalizzato italiano, è pronto a cambiare direzione, perché la maggior parte dei cittadini non si riconosce più nel regime e distingue chiaramente tra il conflitto in corso e la propria identità nazionale.
ll legame con Israele – sostiene – era saldo prima del 1979, e potrebbe tornare a esserlo in un futuro post-teocratico e le manifestazioni a sostegno del governo, organizzate nelle ore successive all’attacco, sono state poco partecipate, mentre la presenza militare per le strade ha il sapore più della difesa affannosa che della forza; a questo si aggiunge la stanchezza sociale, il crollo economico e l’isolamento internazionale, tutti segnali che indicano un sistema sempre più debole, che rischia di sgretolarsi non solo sotto i colpi esterni, ma per implosione interna.
L’Iran, in questo scenario, potrebbe davvero avvicinarsi a una transizione inedita, se sostenuta da una coalizione ampia, dentro e fuori dal Paese, pronta ad accompagnare questo passaggio e proprio Pahlavi ha più volte dichiarato di credere in uno Stato laico, democratico e rispettoso delle differenze culturali e religiose, una nazione in grado di tornare protagonista nella regione non attraverso la minaccia, ma attraverso il dialogo; l’idea, oggi, non è più solo una speranza lontana ma potrebbe diventare un progetto reale, se le condizioni politiche e diplomatiche sapranno cogliere il momento.