L’attacco all’Iran maturato una volta constatato il fallimento della guerra a Gaza. Ora la diplomazia trovi una soluzione per tutto il Medio Oriente
L’attacco di Israele all’Iran è maturato mesi fa, quando israeliani e americani si sono accorti che le operazioni militari non permettevano veramente di cantare vittoria, soprattutto per quanto stava succedendo a Gaza, che infatti è ancora oggetto degli attacchi dell’IDF.
È allora che, per poter dire al mondo che un successo è stato ottenuto, si è puntato sull’Iran per riuscire a raggiungere, almeno lì, un’affermazione politica e militare esplicita. Per questo, osserva Filippo Landi, già corrispondente RAI da Gerusalemme e inviato del TG1 Esteri, Israele ora punta deciso sui siti nucleari di Teheran, oltre che per recuperare l’appoggio dei suoi alleati, critici per gli attacchi indiscriminati nella Striscia ma pronti ad appoggiare Netanyahu, se ce ne fosse bisogno, con l’Iran.
In una situazione così complessa, anche Gaza potrebbe guadagnarci, ma solo se la diplomazia internazionale si rendesse conto che la crisi iraniana va risolta ponendola all’interno di un nuovo scenario mediorientale, di cui anche la Striscia faccia parte.
Come è maturata l’idea di attaccare l’Iran da parte di Israele? È la parte finale di un’operazione nata come reazione al 7 Ottobre ma diventata un piano per cambiare faccia al Medio Oriente?
Credo che questo piano di attacco sia nato nei mesi scorsi dalla consapevolezza israeliana, maturata dai militari ma anche dalla nuova amministrazione Trump, che il conflitto che da ormai quasi due anni è esploso a Gaza e nei Paesi vicini non abbia portato a un successo militare. C’è un termine di paragone: la vittoria durante la Guerra dei Sei Giorni del ’67. All’epoca Israele attaccò l’Egitto, la Siria, la Giordania e anche il Libano, ma chiuse il conflitto in pochissimi giorni. A Gaza, invece, si va avanti da 20 mesi e in Libano si è dovuto raggiungere un accordo di tregua che non ha cancellato la presenza di Hezbollah dal Sud e neanche nella struttura politica del Paese.
Perché non si può parlare di una vera vittoria israeliana?
Abbiamo una situazione simile anche nello Yemen, dove le milizie filo-iraniane sono state bombardate da mesi, dagli israeliani, dagli americani e dagli inglesi. C’è anche una presenza italiana nel mare antistante le coste yemenite con cacciatorpediniere che intercettano i droni lanciati verso le navi di passaggio. Ma tutto questo non ha prodotto una vittoria sul campo, al punto che l’amministrazione Trump ha dovuto chiedere nuovi fondi al Congresso per sostenere il rifornimento alle navi e agli aerei dislocati nella regione.
In Siria qualcosa è cambiato: un successo che non basta ad accreditare la narrazione della vittoria?
In Siria la situazione è cambiata facendo cadere Assad, legato all’Iran, ma a un prezzo alto, quello di accettare al vertice del Paese uomini che fino a qualche settimana fa erano nella lista nera del terrorismo internazionale. Per l’immagine degli americani un colpo pesante.
Perché questo contesto ha prodotto l’operazione militare contro l’Iran?
Nei mesi scorsi è maturata l’idea che un attacco all’Iran potesse essere lo strumento per vincere una battaglia militare e contemporaneamente una battaglia politica. Un giudizio su cui credo che ci sia stato il consenso in linea generale dell’amministrazione Trump, così come il tacito consenso di alcuni Paesi arabi che si trovano tra Iran e Israele. Faccio riferimento alla Giordania, dove gli aerei e le postazioni antimissili fanno da scudo contro i missili e i droni lanciati dall’Iran verso Israele.
Netanyahu ha detto che continueranno ad attaccare per 14 giorni: gli israeliani hanno fatto bene i calcoli?
L’attacco ha colpito i siti militari e nucleari iraniani, ma ha anche puntato a uccidere i vertici militari e alcuni consiglieri della guida suprema: non è un’operazione che possa esaurirsi in uno o due giorni. La prima risposta iraniana ha puntato direttamente a colpire gli edifici militari israeliani a Tel Aviv, nel cuore della città. Un obiettivo in parte raggiunto anche se la censura israeliana ci ha fatto vedere solo le zone residenziali. Siamo a una escalation che difficilmente può essere definita in termini temporali.
Quindi?
Se si vuole proseguire con la distruzione dell’apparato militare può darsi che il limite di due settimane debba essere modificato. E sullo sfondo c’è la minaccia di colpire le autorità politiche del Paese, la guida suprema, il presidente, il ministro degli Esteri. In questo caso il conflitto andrà avanti per molto.
Americani e israeliani sembrano ancora fiduciosi in una ripresa delle trattative. Almeno a parole. Possibile che succeda in questo contesto?
Trump ha detto “spero che l’Iran torni subito al tavolo della trattativa”. Quello che si sta utilizzando in questo momento è un metodo politico-militare molto coloniale, dove all’uso delle cannoniere si affianca l’imposizione di accordi già definiti e non concordati, insomma. Una metodologia del passato che ha trovato nuovamente spazio, perché il banco di prova di Gaza ha permesso a Stati Uniti e Israele di procedere senza essere fermati dalla comunità internazionale, soprattutto dall’Europa.
Alla fine di questa operazione il dossier Iran potrà essere chiuso definitivamente? O comunque resterà una questione aperta?
In Iran c’era una nuova leadership iraniana che si stava consolidando: Pezeshkian, il nuovo presidente, pur essendo un conservatore, ha una visione dei rapporti internazionali più aperta rispetto ai suoi predecessori. Nulla è stato fatto, però, per metterlo nelle condizioni di assumere più potere. Il presidente aveva riportato l’Iran alla trattativa, nonostante fosse stato proprio Trump a stracciare gli accordi sul nucleare sottoscritti a suo tempo da Obama e dal vicepresidente Biden. Tutte le fonti della regione dicono che Pezeshkian su questa trattativa ci aveva puntato.
L’attacco è la fine della speranza che il regime moderi le sue posizioni?
L’attacco all’Iran rischia di ricompattare una nazione intorno a una dirigenza della Repubblica Islamica totalmente conservatrice, mentre nel Paese, in mezzo a tante contraddizioni, stava crescendo la richiesta di aperture civili e politiche. L’uso delle armi per ottenere accordi che andassero nel senso voluto da Israele è un metodo che sta creando solo nuovi enormi problemi.
Per quanto riguarda Gaza questa operazione che cosa significa? Colloca in una prospettiva diversa anche la soluzione del problema della Striscia? O permetterà a Israele di andare avanti a fare quello che vuole senza avere tutti i riflettori puntati, visto che saranno orientati su Teheran?
Le autorità politiche pensano che, spostando l’attenzione sul confronto con l’Iran, Israele ritrovi un sostegno che su Gaza aveva perduto. Con Macron è successo così: la Francia ha detto che se Israele venisse attaccato ancora è pronta a scendere in campo al suo fianco. Esattamente l’opposto di quello che ha fatto rispetto a Gaza, vicenda in merito alla quale ha preso le distanze, in modo netto, dal comportamento israeliano. L’idea, comunque, per la Striscia, è quella di proseguire nell’occupazione militare.
Il modo in cui si è affrontata la guerra a Gaza ha contribuito a creare le condizioni per l’attacco all’Iran?
Il caso Gaza dice due cose: la prima è che si è arrivati a Teheran perché la comunità internazionale, gli Stati Uniti in particolare, hanno sostenuto una metodologia solo militare. La seconda è che, se ci potrà essere uno spiraglio per evitare un conflitto totale e di lunga durata in Medio Oriente, forse bisognerà ricorrere a una soluzione globale, che non riguarda solo l’Iran e lo sviluppo dei programmi nucleari, ma tutto lo scacchiere e quindi anche Gaza. La diplomazia ha perso un’occasione durante i primi due anni di conflitto; se vuole avere una possibilità di impedire un conflitto generalizzato, o perlomeno di ridurne la portata, non può mettere Gaza in un angolo.
(Paolo Rossetti)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.