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Home » Esteri » Medio Oriente » ISRAELE/ “No dei riservisti, diaspora dei giovani, aziende in crisi: il prezzo delle stragi di Netanyahu”

  • Medio Oriente
  • Usa
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ISRAELE/ “No dei riservisti, diaspora dei giovani, aziende in crisi: il prezzo delle stragi di Netanyahu”

Int. Filippo Landi
Pubblicato 26 Maggio 2025
Protesta dei familiari degli ostaggi contro il governo Netanyahu (Ansa)

Protesta dei familiari degli ostaggi contro il governo Netanyahu (Ansa)

Il richiamo dei riservisti mette in difficoltà famiglie e aziende in Israele. I loro racconti svelano la verità sulla guerra che i media non dicono

Molti riservisti si rifiutano di dare seguito alla chiamata alle armi, altri sfruttano il doppio passaporto per recarsi all’estero. Il sostegno alla guerra da parte di Israele, insomma, non sarebbe più così compatto e, tra i soldati, si fa strada sempre di più il rifiuto per un conflitto che, per la violenza esercitata e per le conseguenze sulla popolazione civile, lascia il segno anche sulle loro vite e su quelle dei familiari.


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Tutti aspetti, spiega Filippo Landi, già corrispondente RAI a Gerusalemme e inviato del TG1 Esteri, di cui il Paese, prima o poi, dovrà tenere conto. Anche perché molti settori dell’economia hanno subito un forte rallentamento e sostituire il personale che viene richiamato nell’IDF è sempre più difficile, nonostante gli ingenti aiuti USA, utilizzati anche per pagare le indennità ai riservisti che si assentano dal lavoro per andare nella Striscia a combattere.


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Il quotidiano Haaretz sostiene che la società israeliana sta pagando a caro prezzo l’invio dei riservisti al fronte: famiglie disgregate, aziende a pezzi, suicidi fra i soldati. Un aspetto sottovalutato della guerra?

Il conflitto dopo il 7 Ottobre ha visto emergere due tipi di reazioni di disagio. Quando il ministero della Difesa ha incrementato il numero di riservisti, soprattutto tra le fila di coloro che avevano già preso parte alle operazioni militari a Gaza, c’è stata una crescita esponenziale delle persone che non hanno risposto alla chiamata. Un numero così alto che non è stato possibile ricorrere semplicemente alla coercizione, ponendo un problema politico.


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In quali altri modi si è manifestato il rifiuto di tornare al fronte?

È cresciuta, soprattutto fra i giovani, l’acquisizione del secondo passaporto, un’opportunità a cui gli israeliani possono ricorrere utilizzando documenti del loro Paese di provenienza o rinnovandoli qualora non fosse stato fatto in precedenza. Vuol dire che un numero crescente di giovani, con il consenso delle famiglie, è andato all’estero, per periodi anche lunghi, dopo aver svolto un primo servizio da riservista. In alcuni periodi sono stati anche mezzo milione. Le famiglie si sono premurate di dare ai figli un secondo passaporto, sia per evitare la guerra in corso, sia perché a una parte della cittadinanza non piace come sta cambiando la cultura civile e politica dello Stato israeliano. Una sorta di diaspora anticlericale, contro il fondamentalismo ebraico.

Dove sono finiti?

Gli approdi sono stati diversi: gli Stati Uniti e l’Australia, per esempio, ma anche il Portogallo, oppure alcuni Stati dell’Asia. Un esodo molto particolare che potrebbe anche crescere.

Come ha preso piede questa presa di distanza dalla guerra?

Ci sono soldati che si sono vantati di quello che hanno fatto e si sono mostrati con foto e video mentre deridevano i morti o le persone cacciate dalle loro case. In più, un numero crescente di militari, ritornando nelle loro famiglie, ha raccontato quello che è accaduto nella Striscia: una voce diretta che supera quella cappa informativa che c’è in Israele sia per quanto riguarda le immagini, sia per i contenuti. Non per niente proprio da Haaretz giungono moniti al mondo giornalistico perché asseconda il genocidio in corso. Un’organizzazione composta da giovani ex militari, Breaking the Silence, ha raccolto un numero tale di testimonianze di militari che ha fatto sì che i leader dell’associazione siano stati fermati, imprigionati e poi rilasciati.

L’informazione è davvero così controllata?

Le prime foto dei bambini uccisi a Gaza sono state portate in piazza dai familiari degli ostaggi: si sono resi conto che la rottura della tregua, quella che prevedeva la liberazione delle persone rapite il 7 Ottobre in cambio della fine della guerra, metteva in discussione il futuro e la vita dei propri cari. Nel frattempo, la classe politica, non solo i partiti di destra ma anche un numero crescente di esponenti del Likud, il partito di Netanyahu, ha cominciato a ripetere che non bisogna avere pietà e che affamare la popolazione civile di Gaza è uno strumento utile e valido. E lo spazio dato a queste persone sui mezzi di comunicazione, televisione e giornali, è preminente.

Yair Golan, ex vice capo IDF, leader di sinistra, ha detto che Israele “uccide bambini per hobby”, salvo poi attribuire l’accusa al governo e non all’esercito. Il ministro della Difesa Katz ha intimato alla responsabile dell’Avvocatura IDF, Yifat Tomer-Yerushalmi, di non partecipare all’assemblea dell’Ordine degli Avvocati perché deve occuparsi solo di difendere i soldati da accuse ingiuste e non di far politica. Perché questo diktat?

Il capo di stato maggiore della Difesa, uomo di Netanyahu, che vuole l’occupazione di Gaza, ultimamente ha spinto però per una ripresa degli aiuti ai civili palestinesi. Sa che potrebbe essere avanzata una accusa di genocidio. Per questo si è pensato di creare, insieme alla CIA, una fondazione umanitaria registrata in Svizzera, che ha come fondatore un ex marine americano, per distribuire il cibo ai palestinesi, anche se in un modo così discrezionale che l’ONU e tutte le altre organizzazioni non governative presenti al confine di Gaza si sono rifiutate di partecipare alla distribuzione. L’atteggiamento irritato del ministro della Difesa nei confronti dell’ufficio legale dell’IDF nasce dal fatto che avrebbe spinto il capo di stato maggiore a premere sulla riapertura, seppure molto limitata, della Striscia.

La guerra concretamente come sta pesando sulle famiglie e sulle aziende?

I riservisti, qualora siano persone che già lavorano, ricevono un’indennità calcolata in base al loro reddito. C’è un flusso di denaro che lo Stato versa a persone che altrimenti rimarrebbero prive di entrate, perché le aziende in cui lavorano le pongono in aspettativa. Uno sforzo che Israele sopporta grazie al sostegno americano, sia di carattere economico, sia di carattere militare. Secondo un accordo stipulato da Bush e mantenuto da Obama e dai suoi successori, gli USA mettono a disposizione oltre 3 miliardi di dollari l’anno. Senza contare i finanziamenti straordinari: con l’amministrazione Trump, ora si viaggia stabilmente intorno ai 4 miliardi di dollari l’anno.

Tutto ciò non basta per sorreggere l’economia israeliana?

Nel settore agricolo, per esempio, il personale viene sostituito con lavoratori asiatici. Molti di questi, tuttavia, se ne sono andati per paura della guerra. Ma in altri comparti, come l’hi-tech, c’è una manodopera difficilmente sostituibile. Ci sono difficoltà a mandare avanti il settore edilizio, dove la maggioranza dei lavoratori erano palestinesi: prima della guerra, in questo ambito si era registrata una crescita record. Insomma, una parte dell’economia si è fermata. Ma non è finita qui.

Quali altri ostacoli deve superare Israele dal punto di vista strettamente economico?

Il boicottaggio di Israele, dal punto di vista commerciale, non è più un fenomeno marginale, tanto che, per alcuni prodotti destinati anche al mercato italiano, si è pensato di togliere l’etichetta per non evidenziare la provenienza. Così è stato fatto, ad esempio, per i datteri realizzati nei territori palestinesi, nelle colonie della valle del Giordano. Un’operazione che viola le regole del commercio e che, comunque, non è riuscita: questi prodotti, infatti, sono stati ritirati dal mercato. Sono tutti problemi di cui Israele dovrà tenere conto e che potrebbero incidere sul proseguimento della guerra.

(Paolo Rossetti)

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Tags: Donald TrumpBenjamin Netanyahu

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