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Home » Esteri » Medio Oriente » ISRAELE vs IRAN/ Sapelli: un attacco che indebolisce gli Usa e aiuta le monarchie del Golfo

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ISRAELE vs IRAN/ Sapelli: un attacco che indebolisce gli Usa e aiuta le monarchie del Golfo

La situazione di debolezza degli Usa in politica estera rende possibili eventi come l'attacco di Israele all'Iran

Giulio Sapelli
Pubblicato 14 Giugno 2025
Iran

Missili iraniani su Gerusalemme (Ansa)

Nella notte tra giovedì e venerdì l’esercito israeliano ha lanciato l’operazione “Rising lion” e ha intensificato i suoi attacchi contro la capitale iraniana. Nel corso degli attacchi il comandante delle Guardie rivoluzionarie, Hossein Salami, è stato eliminato e molti scienziati nucleari sono stati uccisi. Con loro anche il più importante consigliere del capo ierocratico Khomeini è stato eliminato.


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Anticipando la forte risposta da parte dell’Iran, Israele si è barricato. Lo spazio aereo è completamente chiuso. È stato dichiarato lo stato di emergenza. Il tenente generale israeliano Eyal Zamir ha insistito sul fatto che l’Iran avrebbe “pagato un prezzo elevato” se il Paese avesse reagito. “Stiamo mobilitando decine di migliaia di soldati. Siamo pronti su tutti i nostri confini”, ha aggiunto. “Cittadini di Israele, non posso promettere il successo assoluto. Il regime iraniano cercherà di attaccarci per rappresaglia, e il bilancio previsto sarà diverso da quello a cui siamo abituati”, ha detto il tenente generale in un discorso televisivo. “Siamo impegnati in una campagna storica e senza precedenti”.


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Israele si trova in un “momento decisivo”, ha detto il ministro della Difesa israeliano Israel Katz. “Questo è un momento decisivo nella storia dello Stato di Israele e nella storia del popolo ebraico: l’Iran è più determinato che mai a portare avanti il suo progetto di distruzione di Israele. Siamo a un punto di svolta decisivo. Se lo perdiamo, non avremo modo di impedire all’Iran di acquisire armi nucleari che metteranno in pericolo la nostra stessa esistenza”.

Intorno alle 4 del mattino ora europea, il sito di notizie americano Axios, citando un funzionario israeliano, ha detto che l’operazione è stata in gran parte condotta da agenti del Mossad, che “si sono infiltrati segretamente e profondamente in Iran con molteplici operazioni di sabotaggio”. Erano supportati da attacchi aerei.


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La controffensiva iraniana era ancora attesa alle 5 del mattino, nonostante la promessa di una “risposta forte” da parte delle forze armate. In un discorso, l’ayatollah Khamenei ha minacciato Israele di un destino “amaro e doloroso”, sostenendo che aveva “scatenato la sua mano malvagia e sanguinaria” sull’Iran.

In un segno della situazione febbrile nella regione, la compagnia aerea Fly Dubai ha annunciato di aver sospeso i suoi voli per Amman, Beirut, Damasco, Iran e Israele. E l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) sta “monitorando da vicino una situazione profondamente preoccupante”.

La Cina, che si autocandida al ruolo di moderatore nell’area in competizione, con un’Ue che politicamente e diplomaticamente non esiste, ha invitato i suoi cittadini in Israele a “rimanere estremamente vigili”. Dalle Nazioni Unite Guterres ha chiesto “la massima moderazione”, appoggiando di fatto la reazione iraniana antisemita, come è ormai prevalente da parte dell’Onu, che altro non fa, del resto, che riflettere l’orientamento generale dei suoi membri. Problema che è il paradigma con cui bisognerebbe iniziare a confrontarsi una buona volta, con determinazione e indipendenza di giudizio.

Come ho molte volte rilevato, questa reazione militare nordamericano-israeliana – perché di fatto Israele agisce con il sostegno logistico nordamericano – scompone le alleanze dominanti limitando le capacità di mediazione delle potenze medie e piccole e indebolisce ancor più gli Usa, rendendo sempre più pericolosa la stessa situazione israeliana: altro non può fare Israele, infatti, che anticipare l’aggressione – atomica e non – iraniana.

L’Australia e la Nuova Zelanda sono stati i primi Paesi, infatti, a condannare gli attacchi israeliani. Donald Trump, da parte sua, ha convocato il suo Consiglio di sicurezza nazionale poiché i prezzi del petrolio sono aumentati del 10% dopo gli attacchi israeliani contro l’Iran e rischiano di avere un effetto controintuitivo sul piano economico, ingenerando rilevanti profitti per lo Stato iraniano, grande esportatore di greggio, sanzioni o non sanzioni.

La verità di questa vicenda risiede nel declino Usa, che si fa sempre più evidente e che preoccupa, non a caso, lo ripeto perché è il nocciolo della questione, le medie potenze alleate – come rendono manifeste le dichiarazioni australiane e neozelandesi, le più vicine alle piattaforme militari della possibile risposta cinese.

Ma gli Usa non potevano non rendere manifesta una reazione dinanzi agli insuccessi di Trump in politica estera: le trattative con Ucraina e Russia sono in uno stallo che risalta cupamente a fronte delle dichiarazioni roboanti del Presidente nordamericano, a cui hanno fatto riscontro l’intransigenza dei vertici ucraini, la reazione risolutamente filo-ucraina del nuovo asse dominante jagellonico-polacco-baltico che ha ricevuto l’appoggio tedesco nel completo rovesciamento della linea della Merkel sotto qualsivoglia angolo visuale la si voglia guardare.

Soprattutto per l’interventismo inglese, che da tempo si è posto alla testa del capitalismo di guerra internazionale, grazie ai suoi ormai organici legami con le petromonarchie del Golfo, che hanno tutto l’interesse a un inasprimento della situazione internazionale, il quale sorregge la loro crescita di potenza e rende sempre più care le loro riserve petrolifere, nonostante tutte le dichiarazioni e le iniziative dirette alla fuoriuscita dalle condizioni tipiche degli oil rentier States.

La Cina, poi, davanti all’abbaiare di Trump in forme scomposte sui dazi, ha risposto con una mossa degli scacchi sul terreno dello scambio di componenti di macchine per produrre macchine, ossia colpendo il cuore stesso dell’accumulazione capitalistica non solo Usa: vietando l’esportazione verso l’anglosfera delle terre rare. Taiwan è sempre più il prezioso bottino che si intravede all’orizzonte.

Gli Usa sono nel panico e, a parer mio, sottovalutano la loro capacità di dissuasione, sottolineo, di deterrenza militare che posseggono nei confronti del resto del mondo.

La ragione risiede nella fine della loro capacità diplomatica: la morte di Kissinger è stata la morte della diplomazia e delle relazioni internazionali, lasciando solo spazio alla geopolitica, ossia alla guerra e spesso neppure alla sola sua minaccia, com’era proprio della politica della deterrenza.

È in questo clima culturale, spirituale, che gli Usa hanno per questo sostenuto la linea oltranzista della destra israeliana, che, del resto, non aspettava altro che dare una prova di forza contro quello che è oggi il nemico principale che domina la scena: l’Iran teocratico-militarizzato.

Esso diffonde la sua fittissima rete nel Grande Medio Oriente, a iniziare dalla sconfitta Usa consumatasi in Iraq nel “dopo aggressione” del 2003, che si risolse nel clamoroso fallimento dei neocon, convinti com’erano di poter costruire la democrazia nell’area storicamente dominata, invece, dal minoritario potere sunnita, che governava in forme tipicamente inglesi, affidando cioè a una minoranza il governo delle maggioranze, così spingendole a lottare tra di loro in guerre continue, come fu ed è con i curdi e gli sciiti: modello anglo-francese par excellence oggi al tramonto, tra tremende tragedie.

Dalla sconfitta del 2003 gli Usa non si sono ancora ripresi. La stessa reazione israeliana all’orribile aggressione genocidaria di Hamas ne risente e non potrà non risentirne ancora di più in futuro, a causa dell’oggettivo mutamento del landascape ideologico mondiale che tracima sempre più in un neo mondialismo antisemita, sugli allori di una comunicazione mediatica dominata – di fatto – dalle correnti islamico-woke del nuovo mondo nichilista.

In Italia ne abbiamo esempi storicamente definitori per la sociologia e la storiografia del futuro. Se queste scienze sociali continueranno a esistere… nella “distruzione della ragione” in cui siamo immersi.

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Tags: Donald TrumpBenjamin Netanyahu

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