L’ambasciatore di Israele in Vaticano ha attaccato il Segretario di Stato card. Parolin per quella che lui ritiene una inammissibile “equivalenza morale”
“È diritto di chi è attaccato difendersi, ma anche la legittima difesa deve rispettare il parametro della proporzionalità. Purtroppo, la guerra che è scaturita [dal 7 ottobre, ndr] ha avuto conseguenze disastrose e disumane. Mi colpisce e mi affligge il conteggio quotidiano dei morti in Palestina, decine, anzi a volte centinaia al giorno, tantissimi bambini la cui unica colpa sembra essere quella di essere nati lì: rischiamo di assuefarci a questa carneficina”.
Le parole del cardinale Parolin, intervistato dai media vaticani nel giorno della ricorrenza dei due anni dal massacro che di fatto aprì l’ultima tragica crisi tra Israele e Palestina, sono chiare ed inequivocabili.
Così come è chiara ed inequivocabile la risposta che l’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede ha dato al Segretario di Stato: “Ciò che più preoccupa [nelle parole del cardinale, ndr] è l’uso problematico dell’equivalenza morale laddove non è pertinente. Ad esempio, l’applicazione del termine ‘massacro’ sia all’attacco genocida di Hamas del 7 ottobre sia al legittimo diritto di Israele all’autodifesa. Non esiste equivalenza morale tra uno Stato democratico che protegge i propri cittadini e un’organizzazione terroristica intenzionata a ucciderli”.
È evidente che Vaticano e Stato ebraico parlino due lingue diverse, attestandosi su due registri culturali e politici profondamente divergenti che il successivo breve commento di papa Leone alla vicenda, secondo cui la posizione di Parolin sull’intera questione “è quella della Santa Sede”, conferma.
Il Vaticano usa il linguaggio di una diplomazia che non attribuisce valori diversi alle vite umane spezzate. Israele è prigioniera di una narrazione di sé che, al contrario, viene da lontano e che è tutta costruita su un’equivalenza inquietante, quella fra dolore e diritto; il dolore dei campi di concentramento del secolo scorso, protagonisti indiscussi di ottant’anni di celebrazioni e di moniti, ma anche il dolore di una diaspora che per secoli ha costretto gli ebrei a difendere strenuamente la loro identità, il dolore per la distruzione di Gerusalemme nel 135 e prima ancora del Tempio nel 70, e forse il dolore per l’esilio conseguente alla conquista babilonese del regno del sud nel 587 a.C. e – in definitiva – il grido di disperazione che impregna le prime pagine del libro dell’Esodo al tempo del popolo schiavo del faraone in Egitto.
Israele funziona proprio così: quello che lo Stato sionista mette sul piatto della comunità internazionale non è un dolore legato soltanto ad un problema presente, ma una genealogia di dolori per cui esso richiede giustizia e risarcimento, in nome del quale si sente investito di un diritto divino ad avere di più, ad essere diverso e a essere trattato differentemente da tutti gli altri Stati.

In fondo quello di Israele è un problema di identità, lo stesso che Kafka nella Metamorfosi descrive con un interrogativo eloquente: “Che cosa sto facendo qui, in questo inverno senza fine?”.
Per gli ebrei la storia, questo inverno senza fine, è salvata soltanto dalla promessa del Messia e dalla caparra di questa promessa che – appunto – è la terra che si trova tra il Mediterraneo e l’Eufrate. Israele è uno Stato che nasce dal dolore e che genera dolore: è nel dolore che trova la sua ragion d’essere, ma è col dolore che cerca di lenire le ferite della storia.
Pavese direbbe che “se stai fermo al tuo posto, la paura si spaventa. Ma se scappi, ti vien dietro come il vento di notte”. Israele continua ad agire ed agendo scappa dal confronto drammatico con la propria storia in cui, continuamente, si trova ricattata e blindata.
La lettura della storia del movimento sionista non è altro che una grande rivendicazione che non tiene conto della storia altrui, ma che tutto calpesta in nome di ciò che nei secoli è stato lacerato.
La rabbia, la vendetta di YHWH, è il motore politico di una realtà potente, strutturata e ben radicata in tutte le grandi potenze occidentali. Un radicamento che, unito al senso di colpa per gli eventi della Seconda guerra mondiale, si trasforma in benevolenza, accondiscendenza, silenziosa complicità anche con le azioni più riprovevoli e – come direbbe Parolin – sproporzionate.
Le parole del cardinale, dunque, scoprono il punto più fragile dell’autocoscienza di un popolo che crede di poter essere diverso in nome di una storia e di una legittimità diversa. La pace non è solo una bella intenzione, ma è cura delle proprie ferite. Io posso fare pace con te se ho imparato a fare pace con me. Tornano nel cuore le parole di Dostoevskij che, in Delitto e castigo, arriva a dire “Credetemi, la vita vi porterà in salvo. E alla fine, voi tornerete ad amare la vita”.
È in fondo questo l’augurio che il Segretario di Stato ha fatto ad Israele: percepire la salvezza non come qualcosa da conseguire e da strappare al nemico, ma come Qualcuno che è presente. E che ama. Un amore così grande che non ha più bisogno, per essere riconosciuto, di far male a nessuno. Che non ha più bisogno di massacri, ma solo di tornare – pazientemente – a costruire e a donare vita.
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