ISS, EPIDEMIA INCONTROLLATA/ “No a lockdown ma più vaccini, test e mascherine”
Da domenica nuovi colori alle Regioni, per l’Iss c’è un “rischio alto” di epidemia non controllata. Ma non servono lockdown. Meglio accelerare su tamponi e vaccini

“Rischio alto di epidemia non controllata e non gestibile”. È lo scenario, in peggioramento, descritto dall’Istituto superiore di sanità, tanto che da domani 14 Regioni e una Provincia autonoma entreranno in zona arancione o rossa. L’indice Rt nazionale è salito da 1.03 a 1.09. Lombardia e Provincia autonoma di Bolzano, con indice Rt sopra 1.25, entreranno assieme alla Sicilia in zona rossa. Abruzzo, Lazio, Liguria, Marche, Friuli-Venezia Giulia, Piemonte, Puglia, Umbria e Valle D’Aosta, con Rt superiore a 1 e in scenario 2, si coloreranno di arancione, andando ad aggiungersi a Calabria, Emilia-Romagna e Veneto. Le restanti cinque Regioni più la Provincia autonoma di Trento, invece, resteranno in zona gialla. Ma se l’indice Rt nazionale sale a 1,09, è in crescita da 5 settimane e “aumenta il rischio di epidemia non controllata”, come certifica, l’Iss, non è contraddittorio mantenere ancora le zone gialle? “In questa situazione molto complessa, in cui siamo dentro un disastro sanitario ed economico – risponde Paolo Bonanni, docente di Igiene generale e applicata all’Università di Firenze e fra i massimi ricercatori nel campo dell’epidemiologia, della prevenzione delle malattie infettive e delle malattie invasive batteriche – è molto difficile capire cosa è più importante o meno importante fare”.
Servirebbe un lockdown, come chiede non solo la Fondazione Gimbe?
Certo, chiudere tutto sarebbe la soluzione più facile, ma possiamo permetterci di fare un altro lockdown generale come a marzo? Mi metto quindi nei panni di chi deve decidere e capisco che si cerchi di trovare una soluzione che non sia così sanguinosa per tante categorie economiche, cercando tuttavia di preservare la salute pubblica.
Un punto di equilibrio è stato trovato?
Se guardiamo per esempio a quel che succede in Gran Bretagna o in Germania, i nostri numeri per ora devono farci ritenere ancora fortunati. Poi non si sa come andrà tra 10 giorni o un mese.
La suddivisione in zone colorate non ha dato risultati scarsi? Non sarebbe il caso di cambiare?
Le nostre misure hanno finora funzionato. Può anche essere una questione ciclica: prima è toccato a noi essere infetti e fare il lockdown, poi a turno è toccato agli altri paesi. Sta di fatto che negli ultimi mesi abbiamo avuto dei picchi meno duri rispetto a quello che stanno sperimentando Regno Unito, Germania e Francia. Può anche essere che la gestione a colori abbia sortito qualche effetto. Difficile però avere una chiara controprova.
Non pensa che in questi mesi si siano affastellate misure caotiche per contrastare l’epidemia?
Sicuramente bisognerebbe cercare di non cambiare le zone troppo frequentemente. La confusione, entro certi limiti inevitabile, potrebbe essere generata dal tentativo di non chiudere più di quello che è strettamente necessario in un determinato momento. Si va per approssimazioni progressive. Ma non mi sento di buttare la croce sulle spalle dell’Iss o del Cts. Forse sarebbe opportuno semplificare i 21 parametri in base ai quali si assegnano i colori alle regioni e si decidono aperture e chiusure.
In questa fase non sarebbe il caso di anticipare il virus, anziché inseguirlo?
Significa che dovremmo fare chiusure preventive? Misure drastiche di sicuro anticiperebbero: ma possiamo restare tutti chiusi in casa senza mettere mai il naso fuori? Non possiamo certo uccidere tutta l’economia del paese, perché così, anziché morire di Covid, moriamo di fame.
Diciamo allora che le misure andrebbero adattate ai cambi di tendenza delle curve epidemiologiche più tempestivamente e senza indugiare troppo…
Penso che sia proprio questo il principio in base al quale si deciderà di entrare in zone rosse o arancioni: se l’indice Rt va sopra 1 si diventa regione arancione e se va oltre 1,25 si entra in zona rossa. È già un tentativo di anticipazione. Basterà questo parametro? Può darsi di no.
C’è chi dice che è arrivato il momento di “chiudere molto, diagnosticare molto e vaccinare molto”. Con tamponi, chiusure e vaccini diamo una botta decisiva al Covid?
Chiudendo tutto, lo ripeto, la daremmo al Covid, ma anche all’economia. Sul vaccinare molto, sono d’accordissimo: i vaccini sono il massimo che si può fare per contrastare l’epidemia e spero che si vaccinino tutti i 60 milioni di italiani, ma già vaccinarne 40-45 milioni sarebbe un bel risultato che ci tirerebbe fuori da questo guaio. Sono anche favorevole al testare molto. Il chiudere tutto è una misura che va adottata con la massima attenzione, è come dire che se brucio tutto, sterilizzo tutto. È vero, però intanto distruggo tutto.
I contagi aumentano: le mascherine non bastano più se si creano assembramenti?
Sono da sempre un fautore convinto dell’uso delle mascherine, soprattutto le KN95, che sono un surrogato delle FFP2 e sono meglio delle chirurgiche. Il problema è sempre quello: se ci si ritrova in 20 e uno solo non porta la mascherina, questo è in grado di contagiare gli altri 19. Indossando la KN95, in questo caso, avrei una protezione maggiore rispetto all’uso della chirurgica. Quindi bisogna fare in modo che le mascherine più protettive, che ovviamente costano un po’ di più, vengano usate da tutti. E basterebbe per migliorare la situazione dei contagi.
(Marco Biscella)
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