Il nuovo album dell’artista statunitense torna volutamente al passato, con canzoni nuove e solide e la strategia di marketing del presente.
Passando per una via periferica di Milano una di queste mattine una fila di manifesti mostravano una frase piuttosto chiara (in inglese, ma traduco): “nuove canzoni fatte alla vecchia maniera”. Sopra, il volto di John Mayer. Ho pensato ad un tour, ma lui riprenderà negli Stati Uniti a febbraio 2022. Era invece la campagna del nuovo album, di cui stiamo per parlare, Sob Rock, lavoro in cui l’artista apertamente guarda al passato (evidentemente ritenuto d’oro) tanto da dichiarare “Fate finta che qualcuno abbia registrato un disco nel 1988 e l’abbia archiviato, ed è stato trovato proprio quest’anno”.
Effettivamente la grafica, i caratteri della campagna di promozione dell’album strizzano l’occhio a quel mondo, ed anche gli slogan usati tirano tutti da quella parte, con in più qualche riferimento alla situazione attuale, tipo: “Life is hard. Rock soft”. Una sorta di cuscino con cui attutire un po’ il dramma da cui ancora non si è usciti pienamente. Chissà se “sob” è un richiamo al verbo singhiozzare o solo un vago accenno ad un genere musicale nostalgico, quasi ad un rimpianto…
Insomma, niente è lasciato al caso nel creare un immaginario di riferimento per il lancio di questo album in cui Mayer, dopo l’esordio pop-rock del 2001, album più blues, live sfrenati con organici di tutti i tipi (ricordiamo solo l’accoppiata Steve Jordan alla batteria e Pino Palladino al basso) ed un paio di episodi acustici sempre di ottimo livello, vuole rendere omaggio ad un rock forse più leggero, ma mica troppo. Cominciamo col dire che, come compagni d’avventura, sceglie fra gli altri Greg Phillinganes e Lenny Castro, musicisti di primo piano di quell’epoca a cui il chitarrista e cantante del Connecticut si rifà per ambientare questo suo lavoro, uscito a quattro lunghi anni dal precedente, con in mezzo una pandemia.
Ultima annotazione prima dell’ascolto: la copertina era già una forte dichiarazione d’intenti. Font retro, posa plastica e luce fra le persiane, forse citazione del manifesto di American Gigolò, quasi a ricordare che Johnny, pur senza il latin, è stato uno dei lover più ambiti del nuovo millennio. Non dimentichiamo che fra le sue love stories si contano Jennifer Love Hewitt, Jessica Simpson, Jennifer Aniston, Taylor Swift e Katy Perry, e non sono tutte.
Ok avete ragione, stop al gossip e via alla musica! Il brano di apertura Last Train Home è anche il singolo di lancio e delimita subito il territorio con un pattern potente di batteria e suoni analogici di synth, oltre a vari strati di immancabili chitarre. Qualcuno ha pensato a qualche brano dei Toto (Lenny Castro e Greg Phillinganes vi militarono entrambi – coloro per i quali Toto fino ad ora è stato solo il nome di Cotugno, vadano subito a confessare il grave peccato e poi si informino). Brano solido e possente, che plana poi su una più delicata ballata acustica, Shouldn’t Matter but It Does, sorta di rimpianto per una storia d’amore finita. Il terzo brano in scaletta (ooops, tracklist) è New Light, singolo pubblicato nel 2018 ed infilato in questo nuovo album, gradevolissima canzoncina con un piccolo strappo funky al centro. Why You No Love Me simpatizza invece con la canzone d’amore, diciamo, Eagles e dintorni, per prenderla larga – e spero nessuno si offenda. Wild Blue si situa fra Ry Cooder e Mark Knopfler, con una certa propensione chitarristica per certi riff di quest’ultimo, soprattutto nei Dire Straits, ma anche un po’ di tex-mex. In ogni caso in questo brano il nostro fa chiaramente intendere che non si è dimenticato come si suona la chitarra. E si svalica la metà album con Shot in the Dark che a tratti – soprattutto per il pianoforte ad ottave – mi fa pensare a certo Springsteen con la E Street Band. I Guess I Just Feel Like è una riflessione sul mondo che sta un po’ andando a scatafascio, sull’ipocrisia del non riuscire ad essere se stessi. Sembra scritto come riflessione sul mondo attuale, che ha vissuto/sta vivendo la pandemia, ed invece è stata scritta prima. Forse dal punto di vista compositivo la canzone migliore dell’album, impreziosita da un ottimo assolo finale che occupa la lunga coda strutturata su un giro reiterato di tre accordi. Ed è il turno di Till The Right One Comes, poppettino davvero leggero, come pure non spicca la seguente Carry Me Away. Colpo di coda e fascinosa ambientazione western con elettriche riverberate nella finale All I Want Is To Be With You, anche se, arrivati in fondo ci si accorge che alcune delle melodie si assomigliano molto fra di loro. Il coro finale è un vero inno, e ce lo si immagina cantato ad una voce alla fine di un concerto, prima dei bis.
Un album ben confezionato, insomma, volutamente leggero, che si ascolta come si beve una birra fresca. Ma che al tempo stesso lascia spazio ad una breve codina di riflessione. È vero che John Mayer non è un ragazzino (ad ottobre ne fa 44), ma spesso in chi fa musica nel presente si nota una insistente tendenza ad ispirarsi in maniera massiccia al passato, iconograficamente certo, ma sovente anche musicalmente. Sarà il passato che è ingombrante, la semplice nostalgia di un uomo a cavallo fra i 40 e i 50 o c’è stata tanta roba grande che si continua a guardare? Molti di noi non avranno tempo di verificare se questo accadrà fra 30 anni con la musica ‘nuova’ (si fa per dire) di oggi. Ne parleremo ancora, per ora buon ascolto e alla prossima!