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Home » Musica e concerti » JON ALLEN/ “Seven Dials”: l’apoteosi pop del “Carneade” inglese

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JON ALLEN/ “Seven Dials”: l’apoteosi pop del “Carneade” inglese

Il misconosciuto songwriter inglese Jon Allen sforna un altro dei suoi gioiellini pop rock, tutti da scoprire

Carlo Candiani
Pubblicato 22 Maggio 2025
Jon Allen

Jon Allen

 

A chi per mestiere o puramente per la passione di condividere buone sensazioni musicali le racconta (e questo è il caso di chi scrive questo articolo), questi appaiono tempi piuttosto complicati.

Dopo gli scoppiettanti e bulimici anni ’70, straripanti di novità a getto continuo, eredità maturata dal decennio precedente, nel quale i protagonisti del mainstream pop e rock si spartivano le hit parade e i gusti del pubblico, in Italia, per esempio, con la folta schiera dei cantautori più o meno impegnati politicamente; e mentre gli echi risuonavano ancora per buona parte degli ’80, già i più attenti fruitori vedevano all’orizzonte una specie di irreversibile tramonto di quella creatività che aveva caratterizzato il suono di quell’epoca che aveva cambiato i connotati della musica generazionale della seconda metà del ventesimo secolo.


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Si può infatti tranquillamente affermare che, a parte qualche sporadico caso, la ventata delle novità rock si esaurisce nei pressi del 1985, con l’affermarsi della world music (una miscela esplosiva tra il rock del mondo anglosassone e i suoni del continente africano) inventata di sana pianta dal genio di Paul Simon (“Graceland”) e da quello di Peter Gabriel (“So”), ai quali si accodarono gli eroi della nostra terra Fabrizio De André e Mauro Pagani (“Creuza de ma”) e Ivano Fossati (“La pianta del tè”).


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Da lì in poi, fino ai nostri giorni, è stato solo un ‘ricicciare’ produzioni discografiche senza più entusiasmo fatte di periodiche collezioni antologiche infarcite di demo abbozzati in studio con versioni alternative o inediti autocelebranti proposti fino allo sfinimento, se pur con indubitabile classe. Artisti storici come Elton John, Van Morrison, Mark Knopfler, Sting, Paul Mc Cartney, gli incartapecoriti Rolling Stones e altri ”fenomeni” ancora in vita, alcuni in “pausa” addirittura ultraventennale come Peter Gabriel (interrotta l’anno scorso) e Stevie Wonder, compresi i superstiti della magnifica schiera dei cantautori italiani, non hanno fatto altro che riproporre la loro cifra creativa sempre più stancamente, facendosi forza della propria grandezza iniziale e delle schiere dei fedeli fans durante i periodici tour.


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Insomma, tra i “dinosauri” (così definiti, un po’ irrispettosamente) che procurano solo sensazioni nostalgiche per i 60 / 70enni e le nuove generazioni sul palcoscenico spettacolare, prive di storie personali e soffocate (con qualche lodevole eccezione) da una musica di plastica, ha proprio ragione l’amico musicista Walter Muto che, in una delle sue quotidiane puntate postate in rete presentando la canzone del giorno, concludeva affermando che “di un buon pop ben costruito abbiamo perso un po’ le tracce”.

Eppure, c’è un songwriter, malauguratamente misconosciuto ai più, che da circa quindici anni ha la capacità di “resuscitare” con eleganza le atmosfere perdute del buon pop ‘easy listening’, fatto di accattivanti ritornelli, che rimandano con disarmante semplicità ai grandi refrain di mezzo secolo fa.

Stiamo parlando dell’inglese Jon Allen.

Giustamente vi domanderete chi sia, ed effettivamente le notizie biografiche su di lui sono piuttosto scarne: non si conosce neppure la sua età, pur non nascondendosi (è titolare di un canale ‘youtube’ dove posta i suoi video), ma per lui, essenzialmente, parlano gli album che periodicamente pubblica dal 2009, facendosi notare subito dagli addetti ai lavori più attenti.

Proprio sulle pagine del Sussidiario, Paolo Vites celebrò il suo primo album “Dead man’s suit” come “uno dei dischi più belli” di quell’anno “un disco che se fosse uscito negli anni 70 oggi saluteremmo come un classico della miglior canzone d’autore”, spiegandone le ragioni “Voce fumosa e sofferta degna del miglior Rod Stewart” capace di scrivere ”ballate intrise di negritudine, con le note grasse dell’organo Hammond come si usava ai bei tempi a fare da collante, deliziosi bozzetti acustici degni di uno Stephen Stills, anima e cuore bene in evidenza in ogni singola nota”.

Quale miglior biglietto da visita! E, possiamo confermare che queste sue caratteristiche negli anni non sono mai state smentite.

Nella pubblicazione dei suoi album, tutti rigorosamente lanciati con un marketing inesistente : “Sweet Defeat”, “Deep River”, “Blue Flame” (quest’ultimo con arrangiamenti orchestrali che virano decisamente sul ‘Bacharach style’) risuona, come uno splendido bigino vivente, tutto il gotha del pop rock soul mondiale: dai Beatles a Van Morrison, da James Taylor agli Eagles, da Cat Stevens a Rod Stewart, da Elton John a Randy Newman, a Billy Joel: naturalezza di ispirazione, semplicità di interpretazione, voce di carta vetrata ma dotata di leggerezza, l’immediata cantabilità dei ritornelli e la commozione che lascia come scia dopo l’ascolto.

Jon Allen non è un clone, non copia. E’ così convincente che viene da pensare che sia un alieno che si palesa al nostro ascolto dopo aver ispirato, lui, negli ultimi sessant’anni tutti gli artisti che hanno fatto grande il rock!

È così anche per il suo nuovo album “Seven dials”, che si avvale di atmosfere più rarefatte, con un incedere soprattutto fatto di intense ballate, ma con un impronta inconfondibile.

Il songwriter Jon Allen, non cerca le luci abbaglianti della notorietà, ma vuole essere cercato per offrire alcuni minuti di sano ed essenziale pop, senza strepiti né clouwnerie.

E quindi dare un po’ di soddisfazione a chi ha la possibilità di condividere la propria passione musicale e far conoscere artisti che vale la pena scoprire e apprezzare a più potenziali ascoltatori possibili.

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