Donald Trump ha giurato come Presidente nel Martin Luther King Day: la più giovane delle festività civili statunitensi, in memoria del profeta dei diritti umani, morto assassinato nel 1968. Trump ha ringraziato nel suo nome i suoi elettori “black”, ma – soprattutto – ha annunciato di voler desecretare tutti i documenti sulla morte di “MLK”. La tragica sparatoria di Memphis è tuttora non svelata, come quella di Dallas nel 1963, fatale per il Presidente John Fitzgerald Kennedy; e quella di Los Angeles, in cui due mesi dopo King, morì il fratello Robert Kennedy, candidato alla Casa Bianca.
Trump-2 vuole ora “tutta la verità” su tutti i “santi martiri” dall’America violenta degli anni ’60 del secolo scorso. Tutti icone “dem”: lontanissimi dallo stile – prima ancora che dai mantra politici – del Presidente appena tornato in carica. “Santi subito”, d’altronde, in una narrazione che a oltre mezzo secolo di distanza rimane assai più mediatica che storiografica: resistente soprattutto nell’auto-identificare un’America “buona” per antonomasia, evoluta senza soluzione di continuità nel politically correct. E forse bisogna scavare qui per tentare di comprendere la voglia di trasparenza di Trump, che ha lasciato disorientati molti osservatori.
La lettura più elementare è che il nuovo Presidente voglia avviare una smitizzazione dei simboli ancora irrinunciabili dell’America che gli si oppone: che si è sempre rifiutata di accettarlo e che continuerà a combatterlo con ogni mezzo. Non c’è da stupirsi che Trump tolleri poco i fantasmi dei due fratelli Kennedy: sintesi pressoché ineguagliata di ricchezza familiare, charme raffinato, aplomb culturale harvardiano che invece lui non ha mai posseduto e che gli vengono continuamente rinfacciati “a contrario”.
“JFK” e “RFK” erano d’altronde figli di un miliardario discusso, discendente di immigrati irlandesi, più che sospettato di essersi arricchito illegalmente durante il proibizionismo e nel crac di Wall Street del 1929: tanto comunque da finanziare largamente la campagna presidenziale di Franklin Delano Roosevelt nel 1932, ricevendone in cambio la prestigiosa Ambasciata americana a Londra. E “Old Joe” aveva certamente mosso tutti i fili possibili nella malavita “etnica” (irlandese e anche italiana) per spingere le avventure politiche dei figli. Le cui morti violente – certamente quella di John – continuano a essere ricondotte da molti a vendette da parte del grande crimine organizzato.
La pista è stata peraltro ignorata dall’inchiesta ufficiale condotta a caldo dalla commissione presieduta dal capo della Corte Suprema Earl Warren, tacitamente fatta propria dalla famiglia Kennedy. L’assassino “nominale” Lee Oswald (subito eliminato da un sicario mafioso) è stato ridotto a lupo solitario, al massimo con un passato opaco in Urss. E Oswald avrebbe sparato da solo, dalla cima di un palazzo su un’auto in corsa, una sola pallottola dalla traiettoria “magica”. Per questo – accanto al mito di JFK – sono resistenti tutti gli interrogativi sulla sua uccisione: in un’alluvione ininterrotta di scoop giornalistici, best-seller, film e serial tv; mentre i dossier che ora Trump vuole aprire sono rimasti sempre inaccessibili (ammesso che non siano stati distrutti).
JFK e il fratello – suo ministro della Giustizia – hanno pagato l’idealismo della Nuova Frontiera oppure sgarri spregiudicati verso mafiosi che avevano investito su di loro grandi pacchi di dollari e di voti controllati? Erano davvero esemplari come “the opposite of Trump”, sempre dipinto come “bad guy” e d’altronde lui stesso rampollo di una famiglia immigrata dall’Europa e divenuta poi facoltosa con gli immobili e i casinò?
Jacqueline Kennedy – unica moglie di John, “bianca-anglosassone-protestante”, fascinosa giornalista di moda nella Parigi del dopoguerra – è stata davvero il meglio assoluto da contrapporre emblematicamente a Melania Trump, top model slava e terza consorte di un Presidente finito in tribunale per mance a una pornostar? L’America sedicente “buona”, che odia implacabilmente il Presidente rieletto attraverso i suoi media e i suoi campus “kennediani”, lo è davvero come insindacabilmente pretende? Spargere sui tavoli le carte segrete dei due omicidi può essere l’occasione per rivedere i grandi miti fondativi dell’America contemporanea.
La voglia di disseppellire il caso MLK potrebbe avere invece finalità “narrative” diverse, anche se collaterali. Cinquantesette anni dopo non è ancora accertato chi abbia sparato la pallottola fatale per il pioniere della cultura woke: il reverendo – e santo – della Chiesa episcopaliana che aveva il sogno di un’America uguale. I sospetti sul mandante ultimo – fin dall’aprile 1968 – si sono però addensati attorno al padre-padrone dell’Fbi: J.Edgar Hoover. Fondatore carismatico della polizia federale di Washington, la comandò per 48 anni, fino all’ultimo giorno di vita.
In quella primavera del 1968 – con le università ribollenti per la guerra in Vietnam – per le presidenziali d’autunno si profilava un duello fra Robert Kennedy e Richard Nixon. Il primo, era stato da “general attorney” il capo istituzionale di Hoover ed era convinto che il capo dei G-men fosse coinvolto nell’assassinio del fratello. Se fosse approdato alla Casa Bianca avrebbe certamente rimosso quello che era divenuto il Grande Ricattatore dell’intera America. Hoover controllava un immenso archivio di dossier, una grande rete informativa – ufficialmente legale e ipertecnologica – e canali strategici di comunicazione con il crimine organizzato.
Morti tragicamente “MLK” e “RFK”, l’America scelse Nixon (lo sfidante perdente di “JFK” nel 1960). Che lasciò Hoover alla guida dei federali, permettendogli di morire nel suo letto nel 1972: ma non sfuggendo a un’eredità avvelenata. Lo scandalo Watergate – che nel 1974 costrinse Nixon alle dimissioni – fu gestito dall’Fbi in difesa di retroguardia attraverso il Washington Post, giornale dell’interminabile mitologia kennediana di retroguardia.
Può darsi che il “cold case MLK” che Trump desidera scongelare, “rivelare”, ri-narrare sia questo: quello in cui uno dei grandi poteri del cosiddetto “Deep State” statunitense (gli altri sono la Cia e il Pentagono) giunse ad assassinare un “capopopolo” che voleva cambiare e “liberare” l’America, sovvertendo la dittatura dell’establishment di Washington. Qualcuno ha già dimenticato il colpo di fucile che sfiorò l’orecchio di Trump, il 13 luglio scorso in Pennsylvania?
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