La Cina sbaraglia la concorrenza con un sistema che aumenta a dismisura la durata delle batterie al litio grazie all’uso di un nuovo elettrolita. Roba che con una ricarica al giorno un’auto elettrica può andare avanti 30 anni. Applicato agli smartphone il sistema potrebbe allungare anche il loro funzionamento fino a un decennio. Una scoperta, di cui ha parlato la rivista Nature, che rivoluzionerebbe anche la produzione, perché molti brand occidentali non potrebbero più realizzare prodotti che si basano su cicli di rinnovo rapidi.
Al di là della singola innovazione e della possibilità che fornisce di ripristinare le capacità della batteria, spiega Giuliano Noci, prorettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano, questo è l’ennesimo segnale che la ricerca cinese ci sta sopravanzando: il gap diventa sempre più pesante per l’Europa, che avrebbe bisogno di massicci investimenti nella ricerca, ma che rimane prigioniera dei campanilismi e della sua scarsa propensione a mettere insieme le forze per raggiungere un obiettivo comune.
I cinesi hanno inventato batterie per le auto elettriche (e non solo) molto più longeve di quelle attuali. Ormai dobbiamo subire la loro supremazia tecnologica?
Che esca qualche innovazione dalla Cina sul fronte delle batterie è, per certi versi, ormai scontato. Sappiamo tutti quanto i cinesi abbiano guadagnato un vantaggio comparato rispetto al mondo occidentale in questo tipo di supply chain.
Dovremo aspettarci innovazioni infrastrutturali sempre più frequenti da parte loro. Il modello di ricerca sviluppato dai cinesi ha caratteristiche che lo rendono particolarmente interessante dal punto di vista di alcune innovazioni di infrastruttura. La prima è il fatto di individuare pochi obiettivi e su questi concentrare sforzi e attenzioni.
È il loro approccio alla ricerca che permette di affermare la leadership dal punto di vista tecnologico?
Il tema di fondo è che avremo sempre più a che fare con i cinesi riguardo all’innovazione tecnologica. In questo caso parliamo di batterie, ma sul fronte ambientale è la stessa cosa. Sulle tecnologie pulite, se noi vogliamo dar seguito a quelli che sono gli obiettivi che ci siamo fissati, in questo momento è pressoché impossibile prescindere dai cinesi, che ormai, in tutta una serie di domini scientifici, sono i più grandi produttori di paper e di brevetti.
Una superiorità che l’Europa comincia ad accusare pesantemente?
Sentiremo sempre più parlare di americani e cinesi. Noi europei, come del resto ha ribadito Draghi nei giorni scorsi, ci stiamo facendo del male da soli.
La tecnologia messa a punto per le batterie delle auto elettriche non rappresenta solo un’innovazione, ma un cambio di paradigma nella produzione, perché allunga a dismisura i tempi di utilizzo della batteria (con una ricarica al giorno, durerebbe 30 anni), mentre finora in diversi campi si riduceva la vita dei prodotti per indurre poi il consumatore a sostituirli. Pechino sta cambiando le regole del gioco nella produzione?
Il vantaggio, da un punto di vista ambientale, se tutto questo corrisponde al vero, potrebbe essere enorme, perché uno dei principali problemi delle batterie è lo smaltimento. Questa innovazione non ha solo un vantaggio di prestazioni, ma anche un vantaggio ambientale non indifferente, perché il vero tema è dove smaltire le batterie di litio.
Non è vero che la filiera dell’auto elettrica è sostenibile: produrre litio significa inquinare moltissimo, così come smaltire le batterie. Un’auto elettrica, lungo il suo ciclo di vita, probabilmente inquina di più di un’auto a carburante. Si è affermata solo perché si è deciso che gli ossidi di carbonio sono pericolosi e devono essere tassati. Ha il vantaggio che, durante l’uso, non emette anidride carbonica.
I cinesi sopravvanzeranno anche la ricerca americana? E noi europei, come facciamo a ridurre il gap?
Qui le chiacchiere stanno a zero: per ridurre il gap bisogna mettere soldi e finanziare progetti di ricerca. Non c’è nient’altro da fare. I cinesi investono tanti soldi e orientano il sistema in quella direzione. Non ci sono alternative. Se vogliamo avere qualche chance, dobbiamo metterci tanti soldi e concentrare le nostre risorse in poche priorità di sviluppo tecnologico. Tutto il resto sono bugie.
Come dobbiamo agire?
Sto discutendo con degli amici intellettuali l’ipotesi di creare una sorta di CERN dell’intelligenza artificiale. Vuol dire essere consapevoli che abbiamo bisogno di focalizzare rispetto a una priorità enormi risorse, così come è stato fatto in passato sul tema della fisica e dell’accelerazione delle particelle. Questo è quello che deve essere fatto.
Poi, però, se abbiamo 27 Paesi che litigano l’uno con l’altro, si fa fatica a procedere. Qualsiasi innovazione tecnologica oggi richiede tanti soldi. Quindi, o si concentrano i soldi o non si fa innovazione tecnologica. Ci vuole un programma a livello europeo, e tutti devono poi poterne usufruire.
Quindi qual è la prima cosa da fare?
Abbiamo un disperato bisogno di definire poche priorità di sviluppo tecnologico. Se non lo facciamo, diventeremo attori marginali.
Ma l’Europa, al di là dei soldi, deve cambiare anche approccio alla ricerca? I cinesi concentrano gli sforzi di tutti per raggiungere un obiettivo. Noi siamo capaci di farlo oppure ognuno cerca una soluzione per conto suo?
Il campanilismo italiano e, in parte, europeo è un grosso limite culturale rispetto al paradigma di innovazione tecnologica che va emergendo. L’Asia è geneticamente avvantaggiata: l’individuo si identifica con la folla, con la società, non c’è privacy, c’è forte spirito di condivisione. Per questo siamo antropologicamente svantaggiati nell’innovazione.
Abbiamo un sistema valoriale che mette l’individuo al centro, ed è bellissimo, ma in questo modo soffre di un deficit sociale e di un deficit da bene comune, che non è più al centro della programmazione strategica.
La rivoluzione tecnologica ha bisogno di una rivoluzione culturale?
In primis, si tratta di una rivoluzione culturale. Non facciamo la rivoluzione tecnologica perché abbiamo dei grossi disvalori culturali. Chi può negare il valore del diritto alla privacy? Il tema, però, è come conciliare questo con uno sviluppo di innovazione che si basa sulla disponibilità di dati.
Se io metto l’individuo e la tutela dell’individuo davanti a tutto, ed è una scelta pienamente comprensibile, devo sapere che questa decisione mi rimbalza, nel senso che ci sono società che non mettono alcun vincolo sull’individuo, raccolgono un sacco di dati e, così facendo, possono innovare meglio.
Dobbiamo trovare un nuovo equilibrio che tenga conto di queste sollecitazioni?
Il tema è capire quanto questo sia in contrasto con un bene comune. Quando ci fu il Covid, lanciai una petizione (“Dona i tuoi dati”) che raccolse un numero di firme bassissimo. Chiedevo di mettere a disposizione i propri dati per la ricerca scientifica. Ma la privacy veniva messa prima di tutto. In Europa la prospettiva culturale è quella di una società che ormai non è più adatta al mondo con cui si avrà a che fare, dove i fenomeni di scala saranno dirimenti.
(Paolo Rossetti)
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