Come reagire ai dazi americani? L’Unione europea ha preparato la sua controffensiva. Ursula von der Leyen l’ha definita forte e proporzionata: 26 miliardi di euro i danni arrecati dagli Stati Uniti e 26 miliardi di dollari quelli che l’Ue vuole provocare agli Usa. È la strategia del pan per focaccia. Ma il calcolo ragionieristico non funziona.
La produzione di merci a mezzo di merci è strettamente intrecciata e non c’è diktat governativo che possa tagliare il nodo gordiano. Quindi le conseguenze vere saranno sul prodotto lordo. Visto che l’Europa non cresce (nemmeno il Regno Unito) è prevedibile che l’ondata protezionistica porti a una recessione nel Vecchio continente e all’aumento dell’inflazione negli Stati Uniti, perché dazi e tariffe sono tasse che gli importatori scaricano sui consumatori finali.
Sarebbe meglio analizzare i veri punti deboli degli Stati Uniti e agire su di essi. Il più debole di tutti è l’enorme indebitamento americano con il resto del mondo e con l’Unione europea che detiene un quinto del debito collocato all’estero.
La scorsa settimana sono entrate in vigore le tariffe imposte dalla prima Amministrazione Trump nel 2018; riguardavano diversi tipi di prodotti semilavorati e finiti, come tubi in acciaio, filo metallico e fogli di stagno, ma anche articoli per la casa, pentole o infissi e diversi macchinari – solo in parte derivati da acciaio e alluminio – come attrezzature da palestra, alcuni elettrodomestici o mobili. I dazi statunitensi interesseranno circa il 5% del valore totale delle merci europee che entrano negli Stati Uniti.
Sulla base degli attuali flussi di importazione, la Commissione europea calcola che gli importatori americani pagheranno di tasca loro fino a 6 miliardi di euro la mossa protezionista di Trump.
L’Ue ha pianificato una risposta in due fasi: dal primo aprile saranno ripristinate le vecchie misure di riequilibrio ai dazi del 2018 e 2020 (dalle barche, alle motociclette fino a liquori come il bourbon). È la risposta “al danno economico arrecato a 8 miliardi di euro di esportazioni di acciaio e alluminio dell’Ue”, stima l’Esecutivo europeo.
A metà aprile entrerà in vigore un nuovo pacchetto per un valore di circa 18 miliardi di euro, pareggiando così il valore dell’offesa americana. Sono in ballo prodotti industriali (acciaio e alluminio, tessuti, articoli in pelle, elettrodomestici, utensili per la casa, plastica, prodotti in legno) e agricoli (pollame, carne bovina, alcuni frutti di mare, noci, uova, latticini, zucchero e verdure).
Molti pensano di contrapporre una tattica del caso per caso e Paese per Paese. In Italia l’ha proposto Matteo Salvini sostenuto da Giancarlo Giorgetti che è, tra l’altro, il ministro dell’Economia. Giorgia Meloni è stretta tra tre fuochi, quello europeo, quello trumpiano e quello leghista. Ma se la risposta europea non sembra efficace abbastanza, allora la scelta non è andare avanti da soli, nessun Paese nemmeno l’Italia ha una forza contrattuale tale da piegare l’Amministrazione americana.
Piuttosto bisognerebbe prendere sul serio la preoccupazione di Trump, cioè di riequilibrare il deficit commerciale, e ragionare su quali sono i veri punti deboli degli Stati Uniti. È istruttivo allora rileggere Guido Carli.
Il disavanzo commerciale può essere contenuto con un aumento delle esportazioni dagli Stati Uniti. Ciò richiede che la produzione cresca più della domanda, ma l’economia è ai limiti della capacità produttiva, il mercato del lavoro è al pieno impiego e scarseggia la forza lavoro, tanto che negli ultimi anni sono arrivati milioni di immigrati, la domanda supera la produzione e questo è rispecchiato da un’inflazione che resta più alta del previsto. L’alternativa è diminuire le importazioni con la politica doganale. Ma ciò colpisce la crescita e peggiora l’inflazione.
Il “male americano”, dunque, non si cura così. Risale indietro nel tempo, al 1973 quando il dollaro è diventato libero di fluttuare e gli Usa hanno esportato nel mondo la loro inflazione, ed è peggiorato dal 1982 quando “gli Stati Uniti sono diventati il più grande debitore netto del mondo”.
Così scriveva Carli alla vigilia del lunedì nero del 1987, quando cominciò il più grave crac di Wall Street dopo il 1929. L’ex Governatore della Banca d’Italia che di lì a poco sarebbe diventato ministro del Tesoro, aggiungeva: “Gli Usa investono in misura superiore al loro risparmio interno e finanziano l’eccedenza dell’investimento collocando i titoli nei paesi nei quali c’è eccedenza di risparmio. Essendo un esportatore netto di titoli, sono un importatore netto di merci”.
Il debito federale americano supera i 36 mila miliardi di dollari; 8.500 miliardi sono collocati all’estero. L’Unione europea è il maggior detentore più di Giappone e Cina; inoltre il risparmio europeo defluisce verso Wall Street. Se le banche del Vecchio continente, a cominciare dalla Bce, vendono debito americano, innescano una spirale che porta il Tesoro Usa alla bancarotta. Se poi le borse europee crescono più di Wall Street (come sta avvenendo in effetti negli ultimi mesi) attirando il risparmio europeo, il patatrac è assicurato. Nel 2008 l’Europa ha pagato la crisi provocata dagli Stati Uniti, oggi potrebbe accadere il contrario?
È uno scenario da guerra mondiale economica. Se ne avvantaggerebbe forse la Cina, ma forse non conviene nemmeno a lei, la sua economia non si regge sulla finanza, ma sull’esportazione di beni industriali. Dunque, meglio non arrivare a tali estremi. Ma è importante capire qual è il tallone di Achille che Trump ignora. Lo sa Jerome Powell alla Fed e infatti si muove con passo felpato. Lo sa anche il segretario al Tesoro Scott Bessent che ha passato una vita a Wall Street, ma non lo dice per non disturbare il boss.
Se fosse questa la merce di scambio da mettere sulla bilancia, l’Unione europea potrebbe ribaltare i rapporti di forza.
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