CINEMA/ Cinquant’anni dopo La dolce vita, l’Italia produce solo pellicole da fast food

- Massimo Bordoni

Cinquant’anni fa La dolce vita di Federico Fellini vinceva la Palma d’Oro. Oggi, spiega MASSIMO BORDONI, il cinema italiano è piena crisi di idee

Dolce_VitaR375 Marcello Mastroianni e Anita Ekberg in una scena de La dolce vita (Foto Ansa)

Cinquant’anni fa La dolce vita di Federico Fellini vinceva la Palma d’Oro alla XIII edizione del Festival International du Film de Cannes, che era già allora la rassegna europea più prestigiosa. Film discusso, splendido e dissacrante, amato e osteggiato, origine di neologismi e di innumerevoli citazioni, La dolce vita è senz’altro da annoverare tra quelle poche pellicole italiane che hanno fatto epoca.

 

Fellini, con immagini degne di un quadro barocco, in bianco e nero lucente e in formato panoramico, dipinge un caleidoscopio di personaggi in un mondo lussuoso e frivolo, affascinante e vuoto. Il principale di questi, il giornalista Marcello (Mastroianni) a caccia di scoop notturni nei locali della Roma “bene”, gli serve da guida, da pretesto per collegare tra loro i sette diversi episodi di cui il film si compone. Ne risulta una rappresentazione quasi allegorica del deserto che sta sotto la superficie di una vita creduta “dolce”, una impietosa ma a-moralistica descrizione del fascino del banale, che si conclude comunque senza condanne per i personaggi e i loro valori (o non-valori).

In quel 1960 era in gara a Cannes anche L’avventura di Michelangelo Antonioni, che contese la Palma d’Oro a La dolce vita fino all’ultimo. La giuria, presieduta da Georges Simenon, si divise equamente tra i due film, ma alla fine pare sia risultato determinante il voto del commediografo Henry Miller, decisosi dietro pressioni dello stesso Simenon, grande estimatore e amico di Fellini. Frattanto, gli altri autori già affermati erano in sala con film di spessore, come Il generale Della Rovere (Rossellini, 1959), Rocco e i suoi fratelli (Visconti, 1960), e La ciociara (De Sica, 1960), che valse alla Loren, oltre all’Oscar, anche il premio per la miglior attrice allo stesso Festival di Cannes del 1961.

Ma a spopolare in quegli anni era la commedia, genere da poco tempo rinato, in parte di derivazione neorealista, e destinato a diventare ben presto il genere nazionale. Che infatti venne ribattezzato “commedia all’italiana” dopo che il film di Pietro Germi Divorzio all’italiana (1961) vinse un inatteso Oscar per la migliore sceneggiatura, firmata dallo stesso regista con Ennio De Concini e Alfredo Giannetti. Celeberrimi sono i suoi titoli principali, che denominano film impressi a fuoco nella memoria collettiva del nostro paese: tradizione vuole che tutto cominci con Pane, amore e fantasia (1953), seguito da I soliti ignoti (1958), La grande guerra (1959), Una vita difficile (1961), Il sorpasso (1962), I mostri (1963).

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Questo cinema era il risultato della proficua collaborazione tra sceneggiatori, registi e attori di primissimo livello, cui si deve in solido la paternità autoriale di tutta la commedia italiana. Vi hanno lavorato registi che ricordiamo come bravissimi artigiani della messa in scena cinematografica, anche molto abili nel delicato compito di trarre il meglio dagli attori diretti: Dino Risi, Mario Monicelli e Luigi Zampa su tutti, e poi Luigi Comencini, Steno (Stefano Vanzina), Antonio Pietrangeli, Mauro Bolognini, Nanni Loy e molti altri.

 

Poi gli sceneggiatori, letterati e scrittori di ampia cultura che hanno saputo dare alla commedia struttura compiuta e contenuti profondi; ricordiamo i principali nelle figure di Age e Furio Scarpelli, Ettore Scola (poi passato alla regia) e Ruggero Maccari, Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, Rodolfo Sonego, Sergio Amidei, Ennio Flaiano. Quindi gli attori, dei quali basti elencare i nomi dei cinque “moschettieri”: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi e Marcello Mastroianni.

 

Questa della commedia era la parte più rilevante del cinema italiano, una sorta di zoccolo duro. Ma nel panorama produttivo nostrano c’era anche lo spazio per altro. Proprio allora, dal 1960 in poi, esordivano nella regia di lungometraggi fiction – come si direbbe oggi – intellettuali, scrittori e documentaristi di varia estrazione sociale e culturale (sia in senso ampio che specifico), come Pier Paolo Pasolini, Ermanno Olmi, Marco Ferreri, Elio Petri, Paolo e Vittorio Taviani, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Valerio Zurlini, Damiano Damiani, e tanti altri.

 

Autori che assimilavano la trasgressione linguistico/formale della nouvelle vague francese, portandola però nel solco della tradizione. Tutti comunque accomunati da una caratteristica fondante: l’idea, moderna, che il cinema è lavoro di elaborazione linguistica, è sguardo che mostra e racconta, e non è mai la ricerca di un consenso facile al botteghino. E i produttori erano con loro, tant’è vero che tutti i registi citati hanno potuto percorrere lunghe e prolifiche carriere.

 

Cos’è successo da allora venendo a oggi? Nel maggio del 2007 Quentin Tarantino, intervistato dal settimanale “Sorrisi e Canzoni Tv”, si dichiarava dispiaciuto per lo scadimento del cinema italiano contemporaneo, dicendo che non sapeva trovare una ragione del perché esso sfornasse ora (quasi) solo film del tipo “ragazzo che cresce, ragazza che cresce” e del tipo “vacanze per minorati mentali”.

 

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Ovviamente si indignarono in molti degli “addetti ai lavori”, i quali meglio farebbero, se ancora capaci, a rispondere con i fatti (in primis la signora Lina Wertmuller, la più indignata di tutti). Va anche detto che il cinema a target popolare di puro intrattenimento, basato sulla riproposta di personaggi di grande appeal nati alla radio o in tv, c’è sempre stato e non è uno scandalo; si ricordino, per esempio, i film balneari della coppia Tognazzi-Vianello, a volte trasformata in terzetto con l’allegra aggiunta di Walter Chiari. Erano i produttori medesimi, però, i primi a sapere che queste proposte dovevano costituire solo una ristretta parte del cartellone, perché il pubblico, giustamente, pretendeva anche dell’altro.

 

Appunto: i produttori. Della catena virtuosa registi-scrittori-attori-produttori di cui si è detto, è oggi proprio quello dei produttori l’anello debole. I grossi pare non si pongano problemi di qualità, e fanno affari. Quei pochi che puntano (o vorrebbero puntare) su progetti di cinema validi anche sotto il profilo dei contenuti e dello stile, fatalmente trovano difficoltà sul piano degli incassi, e giocoforza non riescono nell’intento di creare delle reali opportunità per i giovani autori. A queste condizioni, un nuovo circolo virtuoso non si può mettere in moto.

 

In tutto ciò c’entra anche un fenomeno che è non solo italiano: ovunque si assiste al progressivo ritorno (regresso) al cinema attrattivo, visivamente scioccante, di puro intrattenimento, distribuito come un prodotto industriale di largo consumo, fenomeno che da noi ha forse assunto un carattere più esteso.

 

Quindi, che fine ha fatto il buon medio cinema nostrano, popolare e di qualità al contempo? Se partiamo dalla considerazione che il neorealismo italiano è stato un momento di svolta per tutta la storia del cinema – dato che l’intera modernità della settima arte discende in buona parte da quello – come si spiegano i cine-panettoni e le fiction tv prodotte negli ultimi due decenni, sia dalla Rai che da Mediaset, cioè quei film per la tv a puntate di bassissima qualità sotto ogni profilo: per storia, sceneggiatura, recitazione e, soprattutto, per messa in scena?

 

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L’eziologia di tutto ciò si può forse rintracciare nella vertiginosa crescita della programmazione tv (e della pubblicità) avvenuta negli anni Ottanta, in concomitanza con la diffusione nazionale dei network privati. Infatti, come profetizzava lo stesso Fellini all’epoca di Ginger e Fred (1986), si è assistito da allora alla progressiva de-alfabetizzazione del pubblico degli audiovisivi in genere, dovuta a questa sorta di bombardamento mediatico-visivo proveniente dalla tv.

 

Cioè, come appunto egli sosteneva, «le continue interruzioni dei film trasmessi dalle tv private sono un vero e proprio arbitrio e non soltanto verso un autore e verso un’opera, ma anche verso lo spettatore. Lo si abitua a un linguaggio singhiozzante, balbettante, a sospensioni dell’attività mentale, a tante piccole ischemie dell’attenzione che alla fine faranno dello spettatore un cretino impaziente, incapace di concentrazione, di riflessione, di collegamenti mentali, di previsioni, e anche di quel senso di musicalità, dell’armonia, dell’euritmia che sempre accompagna qualcosa che viene raccontato (…). Lo stravolgimento di qualsiasi sintassi articolata ha come unico risultato quello di creare una sterminata platea di analfabeti».

 

Infatti, il fulcro del problema forse è proprio questo: una platea di cretini impazienti e analfabeti cinematografici (di ritorno) è il target perfetto per le “vacanze per minorati mentali”. Il cinema di massa diventa così un mero prodotto di consumo, sorbito come fast food in un centro commerciale: fino a che i nostri grandi produttori e distributori punteranno solo a questo, temo che resterà poco spazio per una rinascita qualitativa e autoriale del cinema italiano.





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