La 64-esima edizione del Festival di Cannes onora il cinema italiano conferendo la Palma d’Oro alla carriera a Bernardo Bertolucci. Il regista, che ha da poco compiuto settant’anni, ringrazia dicendo che l’occasione lo sprona a guardare al futuro – il progetto di un film tratto da Io e Te di Ammaniti – nonostante sia costretto su una sedia a rotelle causa le recenti operazioni alla colonna vertebrale. Il riconoscimento non sorprende, visto che Bertolucci è da considerarsi il più francese degli autori italiani. Negli anni sessanta infatti, nella fase di piena affermazione della seconda generazione di autori del cinema italiano, Bertolucci si distingueva come il più contiguo al rivoluzionario movimento francese della nouvelle vague. Tanto che nel 1962, anno del primo film La Commare Secca, chiedeva ai giornalisti italiani di fargli interviste in francese, perché “è la lingua del cinema”.
Nato a Parma, figlio del poeta e docente di storia dell’arte Attilio Bertolucci, Bernardo si trasferisce a Roma nel 1952 con la famiglia. Abita in quegli anni nello stesso condominio di Pier Paolo Pasolini, che il padre Attilio aiuta nella pubblicazione del primo romanzo. Proprio dall’amico Pier Paolo, Bertolucci – allora giovane studente di lettere – ottiene le chance per entrare nel mondo del cinema: prima come aiuto regista di Accattone (1961), poi come sceneggiatore e regista di un soggetto che Pasolini stesso ha lasciato a disposizione del suo produttore Tonino Cervi (La Commare Secca, appunto).
Dopo il buon esordio su tematiche pasoliniane, Bertolucci si inserisce tra i principali giovani registi italiani degli anni sessanta, realizzando entro il decennio tre fra i film migliori della carriera: Prima della Rivoluzione (1964), Il Conformista e Strategia del Ragno (1970). In queste opere l’analisi politica e storico-generazionale si intreccia alla cinefilia, lo stile richiama il primo Godard e già affiora un talento visivo notevole, che coglie appieno le inquietudini ed i tormenti propri anche degli altri giovani autori italiani, esorditi nel decennio sessanta (Bellocchio su tutti).
“Il cinema è un fatto di stile, e lo stile è un fatto morale” sostiene il cinefilo amico del protagonista in Prima della Rivoluzione. Vale a dire che la forma espressiva, al cinema, conferisce un indelebile “segno” ai contenuti veicolati. Le scelte di stile sono, per un autore, primarie rispetto a temi e racconto. Quindi, dopo avere messo punto la propria estetica, Bertolucci a soli trentuno anni si immola al successo planetario con Ultimo Tango a Parigi (1972). E’ il suo film più celebre, probabilmente un capolavoro. Ancora oggi capace di mostrarci malinconia, solitudine e distanza tra i sessi nella società occidentale, mantenendo al contempo intatto il suo indimenticabile fascino visivo (fotografia di Vittorio Storaro).
Il successo di Ultimo Tango gli apre le porte delle grandi produzioni e delle collaborazioni internazionali, di attori ed attrici soprattutto. Così tra il 1974 ed il ’75 gira Novecento (1976), ambizioso progetto di raccontare la storia del proletariato italiano lungo tutto il novecento, sceneggiato col fratello Giuseppe ed il fido montatore Franco Arcalli. Ne risulta un melodramma storico magniloquente, disomogeneo e squilibrato, in bilico tra eccesso di retorica ed onesto intento didattico.
Dopo due episodi in tono minore, La Luna (1979) e La Tragedia di un Uomo Ridicolo (1981), Bernardo Bertolucci ritorna – un po’ furbescamente – ai successi planetari. Una notevole seppure apparentemente impropria divagazione, se paragonata alla cinefilia degli inizi, nel cinema commerciale dei kolossal. Gira infatti uno in fila all’altro, con produzioni e cast internazionali, L’Ultimo Imperatore (1987), Il Tè nel Deserto (1990) e Piccolo Buddha (1993). Notevole specialmente il primo di questi. Vicenda intimista immersa in un suggestivo e ben diretto affresco storico, ambientato nella Cina della prima metà del novecento, L’Ultimo Imperatore è il film che vale a Bertolucci il trionfo mondiale e ben nove Oscar, tra cui i tre principali – film, regia e sceneggiatura.
Se la preferita cifra stilistica è stata sempre la giusta distanza dello sguardo, ed una sua musicale mobilità, la poetica di Bertolucci si è spesso informata del tema delle realtà parallele non comunicanti, della vita intesa come un sogno da cui ci si risveglia come eroi inermi. L’ultimo Bertolucci, quello ridisceso sulla terra, riprende con forza tutto ciò. Nei film più recenti, come in parte Io Ballo da Sola (1996), ma soprattutto in L’Assedio (1999), di taglio quasi sperimentale, ed in The Dreamers (2003), altro affresco storico intriso di sapiente cinefilia, il regista si riafferma quello di sempre.
La Palma d’Oro di Cannes premia quindi una parabola artistica importante, come poche altre lo sono state nel panorama cinematografico italiano. La carriera di Bernardo Bertolucci ha saputo toccare un po’ tutti i registri: dal cinema rivoluzionario, stilisticamente sovversivo dei primi anni – condito da temi generazionali e politici – all’affresco storico ed al kolossal di stampo hollywoodiano degli anni di mezzo, fino alle opere sperimentali e riflessive degli ultimi anni. Percorso a dir poco emblematico per il più cinefilo dei registi italiani. Quando si dice “il destino”.